Ne La prigioniera Proust sostiene che le “passioni politiche sono come le altre, non durano” perché sopraggiungono nuove generazioni che non le capiscono più e perché la stessa generazione che le ha provate cambia. Se è una verità, non è universale, o almeno così sembra in questo salotto ai Parioli, dove Luciana Castellina sta seduta su un divano, dritta come un fuso. Attorno a lei, la luce che ancora oggi - le primavere sono 85 - la bellezza diffonde.
La sua è una storia tutta sulla strada tra Roma, dove è nata, e Trieste, dove abitano le radici più forti.
Mica tutti i pezzi di famiglia hanno lo stesso peso. La parte importante per me è quella materna. Mio nonno era ebreo: gli ebrei sono invadenti, arroganti e quindi hanno pesato di più. Mia madre e mio padre si sono separati quando avevo quattro anni. L’avvocato Pacelli, il fratello del Papa, dietro l’esborso di molti quattrini, aveva fatto annullare il matrimonio davanti alla Sacra Rota, che in pratica non c’era stato: e io non si capiva bene come avessi fatto a nascere. Mi pareva molto strano da bimba, anche se loro sono sempre rimasti amici”.
Molte cose si spiegano già qui.
Il mio nonno Liebmann era un hippie ante litteram, era scappato a 17 anni da Trieste insieme a Oberdan per non fare il servizio militare nell’Impero austroungarico. Ho trovato un libro, La vera vita di Guglielmo Oberdank di uno storico inglese, che riporta tutta la corrispondenza con il nonno. In cui viene anche detto che la famosa storia dell’incontro tra Oberdan e Garibaldi a Roma - in cui Oberdan gettandosi ai piedi di Garibaldi gli chiede di liberare Trieste - era una bufala, inventata di sana pianta da mio nonno. Aveva fatto il pittore, poi è andato in Egitto, è tornato, ha conosciuto la nonna che veniva da una famiglia di possidenti agrari di Tarquinia, supercattolici. Non li fecero sposare. Per la disperazione il nonno andò in Argentina. Dopo otto anni la nonna trovò il suo indirizzo, lo cercò e lui la invitò a raggiungerlo, con un telegramma di una sola parola: “Vieni”. Lei scappò con la nave da Genova. Era il 1890. Sono sempre stati poveri, ma si amavano moltissimo.
Lei è cresciuta a Roma, però.
Esattamente qui. Ho frequentato il Tasso. I miei compagni erano Citto Maselli, Carlo Bertelli, Lietta Tornabuoni. Ma io ero molto piccola, molto ragazzina. Fino a 16 anni non mi erano neanche cresciute le tette, tutte le mie amiche erano donne fatte, io ero magra come un chiodo e sembravo una bambina: m’imbarazzava molto. Per tutti ero l’amico Lucianina, al maschile.
Che ricordi ha del Fascismo?
Ero compagna di scuola di Anna Maria Mussolini, con lei ho fatto tutte le elementari e le medie. Andavo a giocare a Villa Torlonia. Il 25 luglio del ‘43, io stavo giocando a tennis con Anna Maria a Riccione. A un certo punto la partita fu interrotta, vennero due guardie del corpo e le dissero che doveva andare via subito perché il padre era stato arrestato. Non avevo ancora compiuto 14 anni. La mattina dopo, nel retro di un quaderno scolastico, iniziai a scrivere il mio “diario politico”. Che comincia proprio così: “Oggi è caduto il Fascismo. ” Registravo un evento misterioso, perché di cosa fosse il non fascismo io non avevo minimamente idea. Questo diario l’ho tenuto fino al ‘47, quando mi sono iscritta al Partito comunista.
A casa sua che aria tirava?
Un antifascismo da barzellette sui gerarchi, non molto di più. Nel ‘44 quando liberarono Roma, io decisi di saltare la V ginnasio e andare direttamente al liceo. Non sapevo bene né il latino né la matematica: mi consigliarono di andare a lezione a casa Apicella. Una mia compagna di scuola, tra l’altro molto fascista, mi disse che c’era la madre che insegnava matematica e la figlia Agata che insegnava latino: con un viaggio solo in bicicletta risolvevo entrambe le questioni. Agata era la mamma di Nanni Moretti: quando è morta ho fatto la sua commemorazione in chiesa. Erano tutti antifascisti, gli Apicella, in un modo molto consapevole: è stato un incontro importante.
La politica arriva subito.
Ho finito il liceo nell’estate del ‘47, nel frattempo mi ero avvicinata al Partito comunista. Nel ‘45, Roma era già stata liberata, fu organizzata una grande manifestazione per Trieste italiana, una cosa che io avevo succhiato con il latte. Alla manifestazione, arrivati in piazza Esedra, i comunisti ci picchiarono di santa ragione. Noi non sapevamo che la nostra manifestazione era stata promossa dai fascisti. Che infatti dettero l’assalto a mano armata alla sede del Pci, allora nella vicina via Nazionale. Mentre ero sui gradini di piazza Esedra, venne fuori dalla sede del Pci un gruppo di persone. Tra cui un certo Iacchia, triestino: fece un comizio improvvisato che mi colpì molto: disse tante cose che non sapevo. Intanto perché a casa mia gli sloveni venivano chiamati sciavì, cioé schiavi. La prima pulizia etnica ce la siamo inventata noi, perché negli anni Venti i fascisti cacciarono tutti gli sloveni dal Friuli. E ne ammazzarono moltissimi. M’incuriosì il Partito comunista e andai a trovarlo a scuola: e così incontrai Citto e tutti gli altri animatori del circolo Tasso. Che cominciai a frequentare: allora volevo fare il pittore.
Perché il pittore, al maschile?
Non so, pittrice non mi viene naturale. Comunque la prima cosa che il Pci mi ha chiesto di fare era una conferenza sul Cubismo, e così attraverso il Cubismo entrai in contatto con il comunismo. Finito il liceo andai al Festival della gioventù a Praga e poi a vedere la Jugoslavia, visto che nella mia vita era stata così importante la vicenda di Trieste. E andai a costruire la ferrovia: sono udarnik, che è il diploma di stakanovista perché avevo un alto livello di produttività. Sono stata un mese e mezzo lì, con una brigata internazionale: ero l’unica italiana, c’erano indiani, indonesiani, ragazzi da tutto il mondo. Paesi di cui io nemmeno sospettavo l’esistenza. Sapevo il tedesco e il francese, l’inglese l’ho imparato lì. Poi tornai, ripassai per Trieste con la tuta e il distintivo. La zia Ester come prima cosa mi disse: “Vai a farti la doccia e togliti quella roba di dosso”.
E quando s’iscrive al partito?
Nel ‘47, c’erano le prime elezioni amministrative a Roma. Alla vigilia, in piazza Vittorio fu accoltellato un ragazzo, Gervasio Federici, mentre appiccicava dei manifesti della Dc. Furono accusati dei giovani comunisti, che si fecero un po’ di anni di galera. Questo episodio diede inizio a tempi oscuri: il periodo delle speranze era finito, il mondo si era richiuso. Entrare nel partito significava fare qualcosa di più. Intanto mi sono iscritta a Legge, anche se non credo di aver mai assistito a una lezione. All’università ci stavo sempre, perché ero segretaria della sezione universitaria. Ho scelto Legge perché quando mi sono iscritta al Pci avevo un grande complesso d’inferiorità: erano tutti così colti... Avrei scelto Filosofia, ma non pensavo di essere abbastanza intelligente. Volevo diventare economicamente autonoma, e dunque ecco perché Legge. Ho fatto la pratica per un anno, ma ho sempre lavorato per il partito.
Il partito di Togliatti.
Era un uomo di straordinaria intelligenza e di grande fascino. Basta pensare ai suoi funerali: una cosa immensa, un oceano di folla. La prima volta che arrivò a Roma quasi un milione di persone. Togliatti parlava come un professore di liceo, il contrario del populismo, della demagogia. Faceva dell’Unità un giornale di alta cultura: nonostante tutte queste cose, era amatissimo. Il partito comunista, all’inizio, era una massa informe di ribelli, soprattutto in Meridione. Fu Togliatti a trasformare questa ribellione in un soggetto politico inserito nel processo democratico. La democrazia in larga parte è stata costruita dai grandi partiti di massa. E specialmente dal Pci.
Che militante era lei?
Io ho fatto molta milizia bruta. Andavo nelle borgate. Il Pci ebbe l’intelligenza di capire che a Milano c’erano gli operai, ma a Roma il popolo era il sottoproletariato: le borgate erano piene di prostitute e ladri.
Andavate a galvanizzare le masse, direbbe Guareschi.
Si trattava proprio di educarle, le masse: queste persone non sapevano nulla, erano davvero ignoranti. La prima cosa della democrazia è trasformare le persone da sudditi in cittadini. Adesso quando vedo la democrazia ridotta agli I like it, o I don’t like it…
Che pensa del partito di Matteo Renzi?
Non mi piace innanzitutto perché ha ridotto la democrazia a un sondaggio su quello che fa e decide lui. In questo Paese è stata cancellata la memoria politica. Io voglio fondare il partito dei nonni, e ho già trovato molte adesioni. C’è stata una rottura generazionale, più forte in Italia che in qualsiasi altro Paese. E non è stata un’operazione indolore. Mi riferisco allo scioglimento del Pci: la rimozione del passato è stata un’abiura. Ed è rimasta un’idea falsa, cioè che tutto ciò che si è fatto nel Novecento siano stati errori e orrori.
La Bolognina sembrava l’unica strada possibile.
Nessuno si ricorda che ci fu un’opposizione fortissima! Il Pci fu sciolto in due tempi: il primo congresso cui fu portata la proposta, a Bologna nell’89, e poi dopo un anno di discussione, nel gennaio del ‘91, il partito fu definitivamente sciolto. In quel periodo 800mila militanti se ne andarono silenziosamente, perché gli era stata spezzata la spina dorsale. Dicendo che tutto era stato sbagliato: non ce n’era bisogno, non era vero. Senza il Partito comunista in Italia non ci sarebbero state le conquiste operaie, il sistema sanitario nazionale, le pensioni, la scuola. E anche la Resistenza è stata fatta largamente dai comunisti. La vita sociale, poi: non c’era un paese in Italia la cui piazza principale non ospitasse la sede del partito e del sindacato. Questo ha voluto dire la crescita di una coscienza civica. Certo che gli errori dell’Unione Sovietica erano stati terribili.
La rottamazione del Pci è stata l’inizio di tutti i guai?
Non solo questo. Anche il berlusconismo è stato un tentativo di cancellare il passato. Berlusconi è riuscito a convincere la gente che i comunisti fossero sempre stati al governo... invece la cosa straordinaria del Pci era che era riuscito a cambiare il Paese stando all’opposizione, a incidere sulla politica in modo profondo. È stato presentato un secolo altro, diverso. Lo vedo anche con i miei nipoti: i giovani non sanno più nulla. Se cancelli il passato, cancelli anche l’avvenire. Resta solo la gabbia del presente.
Poi dal partito l’hanno cacciata.
Avevamo praticato un atto d’indisciplina: fondare una rivista in dissenso non solo sui rapporti con l’Unione Sovietica, quella fu una tra le ragioni. Cioè dire non si tratta di errori, si tratta di rivedere criticamente tutta questa storia. Cosa che Berlinguer ha fatto, dieci anni più tardi. Se l’avesse fatto prima, quando la sinistra era molto forte, avrebbe acquistato il significato di una critica da sinistra. La critica fatta nell’81, quando era già in atto la controffensiva delle destre - thatcheriana, reaganiana - ha assunto un significato pesante: il socialismo non è possibile. Ma le nostre critiche erano anche su un altro terreno, e non secondario: dicevamo che ormai l’Italia era un Paese a capitalismo avanzato dove si erano create nuove contraddizioni. E così vennero fuori la questione ecologica, il consumismo, l’alienazione del lavoro. Essere radiata fu un trauma enorme per me, come se mi avessero gettato dalla finestra. Ma c’era il ‘68 tutto attorno e non mi ritrovai nel vuoto. A me sembrava impossibile fare politica al di fuori del Pci. Per fortuna, cadendo dalla finestra atterrai su un terreno molto coinvolgente, quello del movimento.
Il manifesto di oggi?
Ci scrivo ancora, è fatto da una generazione - a parte direttore e condirettore - giovane, che ha perso un po’ di memoria. Questa generazione è più fragile, noi avevamo un’esperienza politica molto coinvolgente, strutturata. Il manifesto non è nato come giornale, è nato come iniziativa politica. Adesso è un giornale.
La vita pubblica si è intrecciata anche alla vita privata in quegli anni.
Con Alfredo Reichlin, il padre dei miei due figli, ci siamo separati all’inizio degli anni Sessanta. Siamo rimasti molto amici. Alfredo mi ha insegnato molte cose: lui era già un intellettuale, io ero una ragazzina militante di base. Quando era direttore dell’Unità andavamo qualche volta a cena da Togliatti. Era un uomo simpatico, colto, gradevole, ironico. Dopo una vita di esili, clandestinità, guerra di Spagna, dopo un’esistenza difficile, in Nilde aveva trovato una donna normale. Gli piaceva aiutare ad apparecchiare, perché voleva una casa in ordine, una bella tavola dove accogliere gli amici. Gustava la normalità di un rapporto che non aveva mai avuto e lei è stata molto intelligente perché ha liberato l’immagine delle donne comuniste, viste come delle erinni. La militanza si poteva conciliare con l’idea di femminilità, di accoglienza.
E Lucio Magri?
L’ho incontrato all’inizio degli anni Cinquanta. Siamo stati insieme molti anni. Lui ha avuto una grande influenza politica su tutti noi. Ho cercato di impedirgli in tutti i modi di suicidarsi: quel gesto è stato il frutto di una depressione fortissima. Una depressione politica - dal 2004 la sinistra ha cominciato a degenerare - e lui si è chiuso a casa in un rifiuto totale, assoluto. Poi la morte di Mara è stata molto dolorosa. Noi due ci siamo visti e sentiti fino alla fine. Sono sempre rimasta legata ai miei ex compagni: non ho una famiglia ma una tribù, una relazione molto più interessante e varia.
Con Magri siete stati anche deputati insieme.
Ho fatto una prima legislatura con il PdUP. Cioè Dp, la sigla collettiva con cui ci presentammo alle elezioni del ‘76 con Lotta continua e il gruppo di Vittorio Foa, i socialisti dello Psiup, la sinistra del partito socialista. Io ero presidente del gruppo parlamentare, eravamo pochi, bisognava occuparsi di tutto. E imparare tutto: sanità, scuola, politica estera. Quando noi entrammo, il Parlamento non aveva mai visto un gruppo così piccolo, non sapevano che farsene di noi. Non c’erano nemmeno i locali. Ci dissero di andare con i radicali, che erano stati eletti in quattro. E noi: con i radicali mai!
In quegli anni i rapporti con gli ex compagni del Pci com’erano?
Violentissimi. Ci dicevano: ma chi vi paga? Poi hanno chiesto scusa. Giorgio Napolitano è stato uno dei nostri principali oppositori, perché noi nel Pci eravamo parte dell’ala ingraiana. Berlinguer era più possibilista. Tanto è vero che Enrico nel 1984 venne al nostro congresso, ci chiese di rientrare visto che molte delle ragioni che ci avevano diviso erano state superate. Lui aveva operato lo strappo con l’Urss e abbandonato la linea che aveva portato ai governi di unità nazionale. Aveva, insomma, operato una svolta a sinistra. Accettammo. Erano passati 15 anni, pochi mesi dopo Berlinguer purtroppo è morto. E noi rientrammo in un Pci che aveva preso una deriva di destra.
Tanto è vero che qualche anno dopo si è sciolto.
Torniamo indietro di qualche anno. Suscitò molto clamore il suo arresto in Grecia, nel ‘67.
Sono stata la prima giornalista arrestata dai colonnelli. Collaboravo con Paese sera, dove avevo già lavorato. Arrivai ad Atene e il colpo di Stato non si vedeva, avevano messo duemila persone arrestate nello stadio. Furio Colombo era disperato: era lì per la Rai e mentre i giornalisti potevano scrivere, lui doveva mandare delle immagini. E non ce n’erano. Io avevo contatti riservati con le famiglie di alcuni arrestati. Mi dissero che non sapevano dove si trovavano i loro familiari, ma che era stata data indicazione di un commissariato dove si potevano portare dei pacchi. Andammo con Furio e il cameraman al commissariato, riuscimmo a filmare qualcosa. La pellicola uscì dalla Grecia nella valigia di una turista americana che andava a Roma: furono le prime immagini trasmesse del colpo di Stato. La polizia greca sapeva benissimo che io avevo dei contatti. La mattina dopo andai a colazione con i colleghi, a tavola dissi che avevo trovato una telefonata di Pino Rauti, che era lì per il Tempo. “Naturalmente non ho richiamato”. Igor Man mi rimproverò: “Hai fatto male, i colleghi si richiamano sempre”. E aveva ragione: Rauti voleva avvisarmi. Tornai in camera a fare la doccia, uscii dal bagno in accappatoio e trovai la stanza piena di poliziotti. Siccome avevo visto molti film, dissi subito: “Voglio parlare con la mia ambasciata”. Ma il telefono era già stato staccato. Tornai in bagno e mangiai tutti gli indirizzi. Passando per la hall dell’albergo c’era Bernardo Valli, che mi ha seguita fino alla sede della polizia di via Bouboulinas con un tassì. Ci fu subito una protesta di tutti gli inviati che si trovavano ad Atene. Il ministro degli esteri era Fanfani e riferì in Senato della Grecia, tuonando contro il mio arresto. Cosa vuole, tutti in quel momento si volevano rifare una verginità antifascista... E Fanfani ordinò di farmi liberare immediatamente. L’ambasciatore ottenne di trasformare l’arresto in espulsione immediata, con il primo aereo. Ma trattò: “Non il primo, l’ultimo aereo”. Così la dignità dell’antifascismo era salva.
Era già stata in carcere.
Tre volte. La quarta, nel ‘63, ci restai per quasi due mesi: ho ancora le lettere dei miei figli. C’era stata una manifestazione di edili, era l’epoca del sacco di Roma. Mi trovavo a Botteghe oscure, uscii e andai a vedere. C’era uno che strillava, io cercai di liberarlo e portarono via anche me. Resistenza aggravata: minimo cinque anni di galera. A scuola, la maestra chiese a Lucrezia di alzarsi e dire perché la sua mamma era stata arrestata. Siccome avevano detto che io avevo picchiato un poliziotto con un ombrello, Lucrezia disse che non era vero. Prima di tutto perché non possedevo ombrelli. E perché ero “disombrellata di natura”.
Che effetto le fa che sua figlia Lucrezia scriva sul Corriere della Sera?
Negli anni Sessanta il Corriere era un giornale violentemente reazionario. Le cose sono cambiate: quando è uscito un mio libro, qualche anno fa, ho chiesto a Ferruccio de Bortoli di presentarlo. Cosa che ai tempi non avrei mai fatto. I miei figli sono parte di una generazione che ha fatto il Sessantotto molto da dentro. Entrambi hanno studiato in America, un’esperienza che li ha molto cambiati anche culturalmente. Sono parte di quella generazione di mezzo che ha conservato pochi legami con quella esperienza. Loro si sentono di sinistra, intendiamoci bene. Io penso che non lo siano.
Cosa vuol dire essere di sinistra?
Che la libertà non può essere disgiunta dall’uguaglianza, un valore completamente naufragato. Questo è il primato.
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