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Bambini abbandonati dallo Stato italiano

di Chiara Saraceno
domenica 30 novembre 2014

A venticinque anni dall’approvazione della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza possiamo valutare se e quanto essa abbia contribuito a migliorare la situazione dei bambini e ragazzi in Italia e a creare una attenzione nei loro confronti da parte dei decisori politici ed economici.

Come capita spesso, ci sono luci e ombre, anche se temo che le seconde prevalgano sulle prime. È sicuramente diminuita la mortalità infantile, che oggi, al 3,4 per cento, è tra le più basse al mondo. Ma rimangono forti differenze regionali, con uno scarto di quasi tre punti percentuali tra il 2,1 per cento del Trentino e il 4,9 per cento della Sicilia. È aumentato il livello di scolarizzazione, in particolare la percentuale di coloro che proseguono gli studi dopo la scuola dell’obbligo. Ma rimangono elevati i fenomeni di elusione e abbandono, anche nella scuola dell’obbligo.

L’Italia è tra i paesi europei con il più alto tasso di interruzione precoce degli studi (prima del completamento della scuola media superiore). Riguarda il 17,6 per cento degli adolescenti (20,6 per cento dei ragazzi, 14,5 delle ragazze), a fronte del 13 per cento medio a livello Ue. Il fenomeno è particolarmente rilevante nel Mezzogiorno, benché non sia esclusivamente un fenomeno meridionale. L’Italia è anche uno dei paesi sviluppati ove sono più elevati i divari nelle competenze cognitive dei bambini e ragazzi in base alle caratteristiche sociali dei loro genitori e della collocazione territoriale: un segnale della incapacità della scuola — per il modo in cui è organizzata, per le risorse su cui può contare — a contrastare le disuguaglianze sociali di partenza. Ne è indiretta testimonianza anche il fatto che l’Italia è uno dei paesi in cui è più alta (50 per cento) la trasmissione intergenerazionale della bassa istruzione. Soprattutto, dalla metà degli anni Novanta, quasi in coincidenza con l’approvazione della Convenzione internazionale, la povertà minorile ha cominciato ad aumentare, soprattutto tra le famiglie numerose e nel Mezzogiorno.

Con la crisi le cose sono ulteriormente peggiorate. Il rischio di povertà ed esclusione sociale riguarda oggi oltre il 30 per cento dei minori nel nostro paese (oltre il 50 per cento se sono stranieri), una percentuale maggiore del 5 per cento di quella degli adulti. Un milione e mezzo di bambini e ragazzi si trova in povertà assoluta, cioè appartiene a famiglie che non hanno reddito sufficiente per acquistare un paniere di beni essenziali. Il 4 per cento non può fare neppure un pasto adeguato al giorno. Benché il peggioramento delle condizioni abbia riguardato tutto il Paese, è stato particolarmente grave nel Mezzogiorno, peggiorando ulteriormente quel divario nelle opportunità di vita tra chi nasce in zone diverse del paese per cui, come è stato osservato, un bambino che nasce a Sud del 42esimo parallelo ha un rischio di nascere e crescere in condizioni di povertà superiore del trecento per cento rispetto a chi nasce a Nord di quel parallelo.

A fronte della persistenza e aggravarsi di queste disuguaglianze nelle opportunità di vita e sviluppo dei più piccoli tra i suoi cittadini, la politica ha fatto ben poco. C’è stato poco investimento nelle politiche educative, a partire dai primissimi anni di un bambino, con la positiva eccezione di una scuola dell’infanzia quasi universale. Le politiche di sostegno al costo dei figli sono state scarse, frammentate e spesso fuori bersaglio, come rischia di essere da ultimo anche il bonus di 80 euro per i nuovi nati. Le politiche di contrasto alla povertà pressoché assenti, sperimentali, occasionali. Siamo forse ancora il paese in cui i figli sono «piezz’ e core». Di sicuro, siamo un paese in cui i bambini e adolescenti non sono considerati cittadini con diritti propri, ma neppure come soggetti su cui sarebbe doveroso, oltre che utile, investire.



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