Quando Slavoj Žižek ci accoglie davanti casa sua, tra la stazione e la clinica universitaria di Lubiana, ride già sotto i baffi. Sciorina notizie precise sul nostro albergo, giocando al poliziotto informato sui fatti: «Dormito bene? Lì ci lavora Luka, parente della mia prima ex moglie. Lui ha chiamato lei e lei ha chiamato me. Ho ancora un ottimo rapporto». Con i genitori, invece, non doveva essere dei migliori. Non si è occupato del loro funerale, non li va a trovare al cimitero. È legatissimo ai figli, due, frutto di quattro matrimoni: «Io scrivo qui», indica una poltrona in un angolo della sala, spalle al balcone, «mentre lei guarda la tv». Sugli scaffali mostra un paio di stivali di pelle: «Lei è un po’ feticista», sorride, «e anch’io», aggiunge prendendo in mano i mini-busti di Marx e Lenin. Gira in ciabatte e pantaloncini, con una maglietta che gli dà l’aria da ragazzo di 65 anni. È di Melville press, nera: «Dicono che è da fascista! Io rispondo con un motto di Mussolini, “Cari amici soldati, i tempi della pace sono passati”». Mentre sistema tende e lampade per le luci dell’intervista video, sembra chiaro che il ritorno da Marx a Hegel, attraverso la psicoanalisi di Lacan, suggerito da Žižek nel secondo volume di Meno di niente (Ponte alle Grazie) è materialismo dialettico in versione Cabaret Voltaire. A fine intervista, dopo aver scattato il suo primo selfie — controvoglia, perché «odio me stesso e le foto, rubano l’anima» — e sfoggiato barzellette italiane apprese da Giorgio Agamben sul rapporto tra colori del vino e caratteristiche falliche (rosso/grosso, bianco/stanco), ci esorta a manipolare le sue risposte: «I giornalisti bravi», spiega, «ti fanno dire, con parole tue, quello che non pensi». Ma il problema sono le domande: rispetto alle sue risposte fluviali, suonano fuori tema. Perché non sembri un dialogo tra sordi, vanno ricalibrate. Lo scampanare invadente della chiesa vicina («pazzesco!», impreca) dà l’assoluzione.
Cosa significa dirsi marxisti oggi?
«Io sono uno di sinistra e bla bla bla... ma qui ho avuto problemi con i sindacati. Sono nelle mani di lavoratori, come quelli statali, che difendono i propri privilegi, e non i diritti dei poveri: precari, giovani, disoccupati. E se li tocchi dicono che sei un neoliberale, ma chiedere che il sistema sia più equo non è un’idea di destra. È triste: oggi è un privilegio essere uno sfruttato con un impiego permanente».
Sono classi sociali senza coscienza?
«Ecco perché tornare a Hegel, senza la teleologia proletaria di Marx. Per lui, fallita la rivoluzione francese, non bisognava perderne gli ideali. La situazione è simile: oggi, falliti comunismo e socialdemocrazia, con il capitalismo in crisi permanente, dobbiamo trovare una strada».
Come? Qual è il suo Stato ideale?
«Sogno un super-Stato contro le derive di finanza e biogenetica...». Hegel vide in Napoleone lo spirito dei tempi. Chi lo incarna oggi? «Lee Kuan Yew, padre di Singapore, lì il capitalismo è efficiente. Per Deng Xiaoping era il modello per la Cina. È il futuro».
Lei riscrive l’idealismo di Hegel con Lacan. “Meno di niente” è un libro di «self help» psicoanalitico?
«Sì. Ma per capire meglio il mondo, non per vivere meglio. La mia filosofia è scary, spiazzante, distrugge le illusioni. Non credo alla conoscenza di se stessi: la psicoanalisi mi ha salvato la vita, quando dopo una delusione amorosa volevo uccidermi, perché mi ha aiutato a dilatare il desiderio di autodistruzione attraverso il rapporto burocratico con l’analista».
Lei è un’icona antiliberista globale. Avesse vinto l’Urss, chi sarebbe oggi ?
«L’Urss non poteva vincere, non sarebbe riuscita a integrare la rivoluzione digitale. Comunque, e dico una cosa orribile, al liceo scelsi, oltre all’inglese, non il tedesco o il francese, ma il russo: per parlare la lingua dei vincitori. Da dissidente e poi candidato nel 1990 ho combattuto il comunismo, ma gli devo molto: se negli anni Settanta non mi avessero assunto all’Istituto di Sociologia dell’Università di ricerche di Lubiana, che mi permette tuttora di fare quello che voglio, sarei diventato uno stupido locale professore di filosofia».
Quanto guadagna?
«Non lo dico, in genere, per questioni fiscali. Però il netto è 2 mila euro mensili qui all’Istituto, poi altrettanti a Londra, e 10-15 mila euro annui negli Usa, per i talk . Dai libri arriva poco, si diventa ricchi con 100 mila copie: Toni Negri con Impero mi ha detto che ci è riuscito. Io no, e controllo i miei libri in classifica su Amazon».
Lei si riconosce come brand filosofico, icona antiliberista di successo?
«Io icona? Comunque ambigua. Mi odiano, mi danno del fascista di sinistra, dello stalinista, mi accusano di plagi. Accetto però il rischio di venire frainteso con le mie dichiarazioni problematiche».
Per esempio?
«Quando ho scritto, nel libro Violenza , che Hitler non fu abbastanza violento nei cambiamenti sociali. E sa dove mi hanno capito? In Israele. Quello sì che è un Paese aperto al dissenso. Io infatti sono per il boicottaggio dei prodotti commerciali, ma contesto anche gli amici che dicono che non bisogna andare in Israele. Sbagliato. Soprattutto in Europa, poi ti trovi alle manifestazioni antisemite coi nazisti».
Quali sono i progetti per il futuro?
«Mi piacerebbe fare un libro su personaggi da rivalutare, come Cesare Borgia o Galeazzo Ciano: l’Albania fascista con lui visse un’età d’oro. Ma devo fare lavori seri, come Trouble in Paradise , che racconta la crisi con il film di Lubitsch; ogni libro può essere l’ultimo, sono malato di cuore, per il diabete, e perché sono un workaholic ».
Ha uno stile di vita vizioso?
«Gli psichiatri che vedono il tic di toccarmi il naso pensano al crack, ma è nervosismo! Sono l’unico della mia generazione a non essersi drogato. Non fumo né bevo, per non farmi sorprendere dal nemico: sono uno stalinista! Controllo l’alimentazione, dormo 9 ore... sa qual è il mio lusso?».
No.
«Una volta all’anno vado col mio figlio adolescente, o mia moglie, ma separatamente, a Dubai, nell’hotel... curvo (al Burj al-Arab, ndr ). Trovo offerte speciali, da mille dollari a notte. E lì, non faccio nulla: vado al cinema, faccio shopping, scrivo mentre mio figlio gioca al computer. Pura decadenza. E sa cos’è per me la felicità?».
No «A 18 anni una volta mi chiama una voce che aveva sbagliato numero: chiede di Maria, e da me non c’era nessuna Maria. Ho sentito la tentazione di dire no, mi spiace, Maria ha avuto un attacco di cuore. Certo. Non l’ho fatto; ma l’idea di causare una catastrofe da una posizione totalmente invisibile, be’ questa è libertà... E poi mi piacerebbe vivere in Islanda, è quasi come essere l’ultimo uomo sulla terra».
Che rapporto ha con le donne?
«Sono eticamente rigido in amore. Sto con una donna solo se siamo liberi entrambi. A Lubiana è facile sapere con chi sono stato: in genere poi la sposo; quattro volte su dieci è successo. Mi piacciono le cattive ragazze, su di loro puoi fare affidamento nei momenti difficili. Quelle buone vanno solo in Paradiso, quelle cattive dappertutto, come dice il proverbio tedesco».
Cosa pensa del porno?
«Non credo sia una rivoluzione, un progresso, ma nemmeno una semplice mercificazione della donna; in genere è lei a rompere una delle basiche convenzioni del cinema: guarda in camera, è presente, non è solo oggetto, ma soggetto attivo».
Cosa ne pensa del fenomeno virale delle mamme sexy, le Milf?
«Un regalo inconsapevole del femminismo. Prima la donna poteva essere solo madre o prostituta. La mia preferita è Stefania Sandrelli, ma forse la prima donna materna sexy è Isabella Rossellini in Blue Velvet di David Lynch».
Cosa le piace del cinema italiano?
«Peplum, spaghetti western e commedie sexy. La mia preferita è Conviene far bene l’amore di Campanile (1975). In un futuro prossimo, alla crisi dei carburanti si risponde con una specie di teoria di Wilhelm Reich: non disperdere l’energia prodotta dai rapporti sessuali. Ma la condizione è che non ci siano sentimenti, e la Chiesa cattolica si adegua: condanna l’amore come peccato. Lo Stato attraverso i lavoratori controlla la produzione di energia umana, come in uno Stato socialista».
Ma è un sogno o un incubo?
«Entrambi. Oggi il sesso è un dovere. Un osceno dovere del nostro superego».
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