Che le lancette dell’orologio del cambiamento climatico siano in movimento – e sempre più speditamente col passare dei giorni – non è certo una novità. Al pari di molti altri la giornalista Naomi Klein ha passato diversi anni sentendosi sopraffatta dalle dichiarazioni sempre più apocalittiche degli scienziati sull’incombere di un destino tragico per il nostro pianeta, decidendo per lo più di ignorarle. Del resto, per molto tempo Klein è stata totalmente impegnata a rivelare i tanti abusi commessi da multinazionali come Microsoft e Nike nel suo primo libro, No Logo(1999), e l’imposizione, a diversi popoli recalcitranti in giro per il mondo, di politiche economiche liberiste e diseguaglianze sociali crescenti nel volume uscito nel 2007, Shock Economy.
Col passare degli anni, tuttavia, Klein ha cominciato a rendersi conto non solo del fatto che i mutamenti climatici sono così onnicomprensivi e urgenti da non poter essere ignorati ma anche di come essi rappresentino un’opportunità unica. Il cambiamento climatico "potrebbe essere la migliore risorsa argomentativa che i progressisti abbiano mai avuto a disposizione", sostiene la giornalista, per dar vita a quei movimenti dal basso a carattere di massa in grado non solo di imporre adeguate misure per la protezione dell’ambiente ma anche di ingaggiare una battaglia contro le diseguaglianze economiche, creare società più democratiche, ricostruire un forte settore pubblico, venire alle prese con ingiustizie di genere e razziali che datano da lunghissimo tempo e con un’infinità di altre questioni.
Fare tutto ciò, ad ogni modo, richiederà ben altri sforzi rispetto a quello di cambiare qualche lampadina. "Ciò che era necessario fare per diminuire le emissioni non è stato sinora fatto" scrive Klein, "perché fondamentalmente entra in conflitto con il capitalismo della deregolamentazione". Nel suo nuovo libro, This Changes Everything: Capitalism vs. the Climate (pubblicato di recente da Simon & Schuster ma ancora non disponibile in italiano, n.d.t.), l’autrice analizza il fallimento delle grandi organizzazioni ambientaliste (un universo da lei ribattezzato "Big Green") e di quegli amministratori delegati che si ritiene siano animati da intenti filantropici, la posizione dei negazionisti di destra che mostrano in realtà di comprendere la posta in gioco del cambiamento climatico molto meglio di tanti progressisti e la realtà dei movimenti di base che si uniscono per combattere il riscaldamento globale.
Il suo libro prende le mosse da un esame critico delle tesi della destra e di quanti negano la realtà dei mutamenti climatici. Ciò è comprensibile, sia perché la destra ha intrapreso una campagna molto efficace finalizzata a sostenere che il riscaldamento globale non è reale, in modo da sbarrare la strada a nuove leggi potenzialmente utili, sia perché, come lei stessa sostiene, i negazionisti di destra comprendono in realtà molto meglio della maggior parte dei progressisti ciò che è in gioco nel tentativo di dare una soluzione al problema del cambiamento climatico: la rimessa in discussione, da cima a fondo, del capitalismo di libero mercato per come lo abbiamo conosciuto. Per quale motivo la destra capisce il cambiamento climatico meglio della sinistra?
Innanzitutto è importante avere ben chiaro che il movimento negazionista è non di rado interamente il prodotto del pensiero liberale e liberista. Think tank di destra come Cato, l’American Enterprise Institute e l’Heartland Institute hanno un ruolo predominante nell’organizzazione di raduni annuali come l’Heartland Conference o nelle pubblicazioni del movimento. Heartland, ad esempio, è attualmente conosciuta soprattutto come un’istituzione di negazionisti del riscaldamento globale e molte persone credo ne abbiano sentito parlare solo in riferimento alla conferenza sul cambiamento climatico che organizza annualmente. Tuttavia, Heartland è in realtà prima di tutto un think tankche sponsorizza l’ideologia del libero mercato. Esiste da molto tempo, ed esiste per promuovere il programma neoliberista duro e puro fatto di deregulation, politiche di austerità e politiche antisindacali. Un pacchetto di misure politiche che conosciamo bene.
Quando, alla conferenza di un paio di anni fa, ho intervistato Joe Bast, il capo di Heartland, l’ho trovato piuttosto schietto in proposito. Mi disse di aver cominciato ad interessarsi al cambiamento climatico non perché avesse riscontrato dei problemi dal punto di vista scientifico ma perché aveva capito che se i dati scientifici erano veri e non sottoposti a confutazione ciò avrebbe significato che, dal punto di vista della regolamentazione statale, "tutto fa brodo". L’intervento dello Stato in economia si sarebbe così dimostrato necessario. Si sarebbero dimostrati necessari investimenti nel settore pubblico. In buona sostanza, tutto il loro programma ideologico sarebbe stato condannato a rimanere al palo.
È per questo, mi ha spiegato, che lui e i suoi colleghi hanno scelto di difendere le posizioni acquisite, riuscendo alla fine a rinvenire quelle che ritengono essere delle imprecisioni scientifiche. Se lei dà un’occhiata a chi sono realmente i negazionisti, risulta chiaro che ciò che li muove è il desiderio di mettere al sicuro l’agenda neoliberista.
Costoro hanno assolutamente ragione quando affermano che una crisi di queste proporzioni implica una risposta collettiva, investimenti nel settore pubblico e una forte regolamentazione. Ciò non equivale a dire che implichi il socialismo. All’interno del campo della regolamentazione statale si dà un’ampia gamma di risposte possibili, alcune delle quali sono a mio avviso ben poco auspicabili, mentre altre decisamente di più. Ma l’idea che possa esserci una risposta ai mutamenti climatici interna a un’ottica di laissez faire è piuttosto assurda.
La ragione per cui tutto ciò ha una sua importanza risiede nel fatto che quest’ultima idea coincide con quella che i principali gruppi ambientalisti ci hanno propinato: è possibile affidare al mercato la risoluzione del problema. In realtà, i precedenti ci dicono che l’essersi affidati al mercato ha comportato un aumento delle emissioni pari al 61 per cento a partire dal momento in cui avremmo presumibilmente cominciato ad affrontare il problema del cambiamento climatico.
Leggendo il capitolo del libro intitolato "Big Green", dedicato alle principali organizzazioni ambientaliste che lei sottopone ad una stroncatura piuttosto minuziosa, sono rimasto colpito da quanto le risposte di destra e quelle di sinistra al problema del cambiamento climatico rispecchino i mutamenti politici che hanno caratterizzato in generale destra e sinistra nell’epoca dell’egemonia neoliberista. Da un lato abbiamo infatti una destra che ha in realtà ben chiara la posta in gioco e ha pertanto assunto la linea dura al fine di impedire qualsiasi tipo di soluzione anche solo moderatamente progressista; dall’altro, ci sono dei progressisti sempre più in balia di una deriva destrorsa e per lo più arrendevoli di fronte all’agenda della destra. Può parlarci un po’ di Big Green?
L’universo del Big Green è fatto di semplici progressisti, si tratta di un movimento molto liberal. La sinistra in quanto tale ha infatti pressoché rinunciato a confrontarsi con il tema del cambiamento climatico. Salvo rare eccezioni, a sinistra la questione climatica non ha mai preso vero slancio come problematica a sé stante e si è sempre configurata piuttosto come un’appendice di qualcos’altro. È significativo il fatto che, quando il movimento di Occupy si è costituito, il primo manifesto programmatico che elencava tutti i mali del capitalismo non facesse parola del cambiamento climatico. Si tratta a mio avviso di una svista rivelatrice.
Penso che il cambiamento climatico sia il miglior argomento che abbiamo mai avuto a disposizione contro la tendenza alla destabilizzazione della vita sul nostro pianeta insita nel capitalismo. Eppure, la sinistra si è come chiamata fuori. Parte di tutto ciò è anche l’idea che il movimento contro il cambiamento climatico abbia a che fare con Al Gore – per l’amor di Dio! – con le star di Hollywood e con un generico progressismo. Noi gente di sinistra non volevamo avere nulla a che spartire con costoro, per cui abbiamo di buon grado abbandonato il cambiamento climatico nelle mani dei Big Green.
Credo abbia giocato un ruolo anche una sorta di stanchezza che pesa sulle spalle degli attivisti di sinistra, dal momento che ci si chiede di occuparci di così tante questioni e questa qui, nello specifico, dava l’impressione di essere seguita da altri. In questo senso, non è che le persone di sinistra abbiano mai pensato che il cambiamento climatico non fosse in atto, semplicemente lo hanno trattato dicendo: "Ok, questa me la risparmio, perché ho una sacco di altre cose da fare e in fin dei conti non mi sembra una questione così urgente".
Penso infine che sia difficile tenere adeguatamente in considerazione le conseguenze della paura di fare errori che caratterizza molte persone. Le politiche climatiche sono il regno dell’incertezza. I Big Green sono riusciti a trasformare una problematica che è in realtà piuttosto semplice in qualcosa di sorpredentemente inaccessibile e misterioso.
Ci si confronta qui con due universi che sono entrambi problematici. Uno è quello della scienza e l’altro quello della politica. Ambedue sono in apparenza molto complicati. Si tratta di un ambiente che può risultare tutt’altro che accogliente, se uno non ne fa parte. Un ambiente fatto di persone che si sventolano vicendevolmente in faccia grafici e tabelle. E va detto che i negazionsiti, col loro gridare costantemente "Ecco, vi abbiamo beccato!", hanno in qualche modo esercitato un condizionamento. Molti si sono sentiti obbligati ad essere estremamente circospetti, a non dare nulla per scontato; si sono sentiti impossibilitati a stabilire un collegamento fra le condizioni metereologiche estreme e la questione climatica, perché le due cose non sono sovrapponibili. Per un bel po’ di tempo si è fatta una certa fatica a parlar chiaro.
Quando il linguaggio si fa così circospetto, complesso e specializzato, il messaggio che arriva alle persone comuni è che hanno a che fare con un club esclusivo, di cui non sono parte. Penso che tutto ciò valga anche per le persone di sinistra.
Lei sottolinea che il sistema capitalista è responsabile della difficile situazione in cui ci troviamo dal punto di vista climatico, poi però fa anche riferimento, per lo più en passant, alla necessità di un cambiamento di stile di vita da parte di tutti coloro che abitano in paesi come gli Stati Uniti e il Canada. A un certo punto menziona l’abbandono di alcuni dei valori dell’Illuminismo che ritiene connessi con l’estrattivismo. Devo dire che mi innervosisco parecchio, talvolta, quando sento gente di sinistra che parla di voltare le spalle ad alcune parti dell’Illuminismo e della modernità.
Penso che vada chiarito in maniera molto netta che affrontare la questione del cambiamento climatico non significa essere contrari alla tecnologia. Il punto è il bisogno che abbiamo di trasformare la tecnologia in un potere diffuso e non centralizzato. La tecnologia può svolgere un ruolo centrale praticamente in ogni tipo di trasformazione, ma questo non significa che tutte le tecnologie vadano bene ed abbiano effetti positivi.
Dobbiamo fare molta attenzione al culto feticistico e totalmente reazionario di un qualche idilliaco passato. Allo stesso tempo, però, l’aver frequentato un po’ i geoingegneri mi ha veramente messo addosso una paura boia. È evidente che più proseguiamo lungo questa strada, più l’idea baconiana di progresso finisce per coincidere con l’imbrigliamento e il controllo della natura, più prenderanno piede questo tipo di tecnologie che comportano rischi sempre più estesi e sempre maggiori.
Ritengo che dobbiamo effettivamente aprire un dibattito che abbia al centro la questione fondamentale del nostro ruolo su questo pianeta, se esso debba cioè consistere o meno nel dominare la natura e se noi esseri umani dobbiamo considerarci in guerra con quest’ultima. Non sono contro la scienza, ma andremo verso una moltiplicazione dei rischi veramente preoccupante se non cominciamo a domandarci, in maniera decisamente scomoda, fino a che punto si estende la nostra intelligenza. Non dobbiamo sguazzare nell’ignoranza, ma la sopravvalutazione della nostra intelligenza può essere foriera di enormi pericoli.
Verso la fine del libro lei parla della sua crescente insofferenza nei confronti di quei movimenti privi di strutture stabili che ha invece difeso in passato, primo fra tutti il movimento no global che animò diversi momenti di protesta all’inizio del nuovo millennio. Ciò è dovuto all’urgenza della questione climatica o ci sono altre motivazioni?
Non penso di essere la sola a provare quest’insofferenza. Ritengo che si sia trattato di un’evoluzione e che la mia generazione – la generazione degli attivisti no global, la generazione di Seattle – si sia lasciata trasportare un po’ troppo nella sua avversione per le strutture. Tutto ciò che puzzava di politica e di istituzioni era visto in maniera sospettosa. Nella generazione di Occupy e nei movimenti europei anti-austerità osservo invece il desiderio di trovare una via che sappia raggiungere un equilibrio fra la convinzione della necessità del decentramento e la legittima diffidenza nei confronti del potere statale centralizzato da un lato e un serio impegno politico e di prassi politica dall’altro.
È per questo che dedico una parte abbastanza significativa del libro ai successi, per quanto imperfetti, della transizione energetica tedesca. Questa è un’importante vittoria dei movimenti sociali: Angela Merkel non ha fatto quello che ha fatto a causa del suo buon cuore, ma perché la Germania ha il più forte movimento antinuclearista del mondo e, più in generale, un movimento ambientalista molto agguerrito.
La rapidità della transizione tedesca lascia sbalorditi. Stiamo parlando di un paese che, nell’arco di dieci anni e mezzo, è arrivato a produrre il 25 per cento della propria energia da fonti rinnovabili, in buona parte ricorrendo a cooperative decentrate e controllate dalle comunità locali. Tuttavia, la cosa non si è svolta all’insegna del "Ehi, facciamolo, io e i miei amici vogliamo metter su una cooperativa energetica"... Si è trattato piuttosto di una politica nazionale generalizzata che ha creato un contesto nel quale si sono potute moltiplicare una serie di alternative che, sommate fra di loro, hanno dato vita al più significativo processo di transizione energetica del mondo, almeno per come la vedo io.
Conosco personalmente alcuni attivisti del movimento ambientalista tedesco. Anche loro affondano le proprie radici politiche nel movimento no global, e un tempo erano molto più propensi a respingere in maniera sdegnata l’idea di impegnarsi in politica. Oggi, tuttavia, le persone si sporcano le mani. Lo si vede a Seattle, con la lotta per il salario minimo. Lo si vede a Chicago con il movimento degli insegnanti. Lo si vede in Islanda, con il movimento anti-austerità che dà vita ad una sua propria creatura politica. Lo si vede in Spagna con Podemos. Sempre più spesso nascono nuove organizzazioni tramite le quali le persone cercano di trasformare l’essenza stessa della politica.
Non è solo la scienza del clima a rendermi insofferente. Quando difendevo l’assenza di strutture del movimento no global lo facevo soprattutto per cercare di respingere i tentativi di cooptarlo posti in essere da altre realtà, che comparivano improvvisamente dicendo: "Ecco qui, ho per voi un programma in dieci punti". Io rispondevo: "Dateci tempo, saremo noi stessi a produrre un programma, prima o poi". Però non lo abbiamo fatto.
Non ho mai sostenuto che non dovessimo avere un programma, ero solo alla ricerca di un catalizzatore e di un quadro adatto nel quale inserirlo. Credo che il cambiamento climatico, col suo fondare la necessità della trasformazione su basi scientifiche, il suo darci un termine temporale e la sua capacità di fare da collettore di tanti movimenti diversi, possa oggi essere sia quel quadro che quel catalizzatore.
Vorrei farle una domanda sul sindacato. In alcuni punti del libro lei fa infatti riferimento ai sindacati, ad esempio a proposito della Blue-Green Alliance.[1] D’altro lato, però, è abbastanza evidente che tanto i sindacati Usa quanto quelli canadesi sono ben lontani dall’avere realmente compreso la portata della questione climatica. In che modo, secondo lei, la nuova generazione di ambientalisti – "Blockadia", come la chiama nel suo libro – dovrebbe guardare al sindacato e relazionarsi ad esso?
Penso si sia ormai molto diffusa all’interno del movimento contro l’oleodotto Keystone [2] un’autocritica (che anch’io faccio mia) secondo la quale sarebbe stato meglio coinvolgere sin dall’inizio anche una componente sindacale. Quando erano ormai due anni che lottavamo contro quel progetto è saltato fuori un rapporto molto accurato che spiegava come gli investimenti dirottati verso di esso sarebbero potuti servire a creare una quantità nettamente superiore di posti di lavoro ecologicamente puliti, come farlo e come coinvolgere a questo scopo tutta una serie di realtà sindacali.
Non penso che i giovani ambientalisti di oggi ce l’abbiano con i sindacati. Vedo al contrario una spinta molto forte a lavorare insieme e a proporre modelli che contengano soluzioni corrette. Molte tensioni si concentrano sicuramente attorno ai progetti di nuovi oleodotti. Credo che a New York (alla People’s Climate March, tenutasi lo scorso 21 settembre, n.d.t.) vedremo una forte presenza sindacale, ed è questo uno degli aspetti più inediti e interessanti di questo appuntamento unitario.
Le opportunità mancate, da entrambe le parti, ormai non si contano più. È evidente che ci sono settori del movimento operaio statunitense che continuano a sprecare grandi energie nella difesa di un numero molto esiguo di posti di lavoro pessimi, soprattuto se li si confronta con l’opportunità che abbiamo di creare un numero veramente elevato di posti di lavoro di qualità. Tuttavia, penso che dovremmo andare un po’ oltre il semplice parlare di posti di lavoro: la questione vera è l’attività lavorativa in quanto tale.
Il libro si confronta da vicino col fatto per cui le risposte keynesiane, prese singolarmente, non ci portano al raggiungimento dell’obiettivo. È necessario cominciare a discutere della necessità di ridurre alcune parti della nostra economia per espanderne invece altre. Ciò significa ad esempio ampliare la fetta destinata al lavoro di cura. Significa riconoscere il lavoro che non è considerato tale, come è appunto nel caso della cura dei figli o degli anziani. Significa cominciare a parlare di reddito minimo garantito. Dobbiamo andare oltre la semplice discussione sui posti di lavoro.
Da un certo punto di vista, per il sindacato tradizionale si tratta di una sfida ancora più impegnativa, non appena smettiamo di parlare solo di posti di lavoro e cominciamo invece a discutere di come valorizzare l’attività lavorativa in generale. Sono convinta che una battaglia per il reddito minimo garantito, un dibattito reale e vivo su questa questione, potrebbero portare alla costituzione di un blocco elettorale di un certo peso. E ciò potrebbe avere degli effetti positivi sul sindacato.
Nel libro viene sottolineata tutta una serie di possibili connessioni fra le questioni di genere, la lotta delle lavoratrici domestiche, il reddito minimo universale, la questione dei risarcimenti, tutti temi che cominciano ad imporsi sempre di più ma che sono completamente isolati l’uno dall’altro.
Una cosa che trovo emozionante è che il mio libro può servire ad incoraggiare altri a dire: "Ehi, anche questa questione ha a che fare con il clima. Devo scriverne in qualche modo, Klein l’ha menzionata solo di sfuggita". E devo dire che sto già avendo un ritorno di questo tipo, ad esempio di gente che mi scrive: "Dovresti dire qualcosa in più sull’esercito e sulle guerre, sul finanziamento della ricerca di base e sull’istruzione pubblica...". E, veramente si tratta di una lista infinita.
Mi auguro che siano tante le persone di sinistra che, leggendo il libro, si sentano stimolate a scrivere a loro volta. Che si tratti di critiche, di cose tipo "hai dimenticato questo", "ecco un’altra cosa" o in qualunque altro modo ciò si esprima. Abbiamo assolutamente bisogno di un dibattito di questo tipo.
Molte delle notizie riguardanti i disastri climatici che si profilano all’orizzonte rischiano di portare ad una paralisi dei sensi e al nichilismo. Lei scrive in modo molto commovente di come è riuscita a lasciarsi alle spalle un po’ di questo senso di paralisi, circostanza che l’ha portata a decidere di avere un figlio. Tuttavia, oltre a preoccuparci del fatto che le persone vengano alle prese con la devastazione cui porteranno i cambiamenti climatici, non dovremmo anche essere in apprensione per il fatto che esse dovranno confrontarsi con l’enorme portata delle contromisure da intraprendere – ad esempio, privare le grandi multinazionali dei combustibili fossili di profitti miliardari – e che potrebbero alzare le mani in segno di resa di fronte a compiti così gravosi?
Non penso sia nulla di più spaventoso di quanto si è cercato di fare con Occupy Wall Street. Nulla di più preoccupante dello sfidare le banche. C’è una forza, che ci spinge a combattere collettivamente questa crisi esistenziale, che è allo stesso tempo fonte di timore e una potenziale spinta ad agire. Non sto dicendo che tutto ciò non faccia paura. Tuttavia, i movimenti progressisti assumono sempre su di sé grandi sfide. Tutti siamo consapevoli, credo, del fatto che dobbiamo venire alle prese con ricchezze consolidate, con diseguaglianze mostruose presenti nei nostri rispettivi paesi e con il controllo che le grandi aziende esercitano sulla politica. Il punto non è se dobbiamo farlo o meno: sappiamo tutti che dobbiamo farlo. Sappiamo tutti che non possiamo sottrarci a questa battaglia.
(traduzione di Marco Zerbino)
NOTE
[1] Realtà associativa Usa che riunisce in un unico organismo alcuni fra i più grandi sindacati di categoria statunitensi (ad esempio il sindacato dei metalmeccanici, quello dei lavoratori dell’industria automobilistica e quello del settore sanitario) e diverse importanti associazioni ambientaliste. Scopo dell’associazione è quello di costruire "un’economia americana più pulita, più giusta e più competitiva" (n.d.t.).
[2] Il progetto Keystone XL riguarda la costruzione di un megaoleodotto che dovrebbe servire a trasportare il petrolio delle sabbie bituminose canadesi fino alle coste texane del golfo del Messico. (n.d.t.).
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