Era difficile rintracciare la genesi politica di tale segno, era come se vi fosse sempre stato. Alcune ne attribuivano l’origine al movimento femminista nordamericano, quasi per abitudine: così come era arrivata la musica della West Coast e altri elementi culturali diventati subito di moda. Eppure, questa ipotesi non mi convinceva a livello di esperienza personale: negli anni in cui ho vissuto negli Stati Uniti non mi è mai capitato di vedere esibizioni del segno della vagina in manifestazioni di donne. Dunque, dovevo verificare, procedere per esclusione. Oltreoceano, le femministe che ho interpellato mi hanno risposto di non aver mai notato questo segno nelle manifestazioni dell’epoca in Nord-America. Mary Hawkesworth, direttrice della rivista di semiotica femminista Signs, mi scrive che non ricorda di aver visto il «segno V» in occasione delle manifestazioni femministe degli anni Sessanta, Settanta e nemmeno negli Ottanta. Certo, anche negli anni Settanta giravano nel movimento molte rappresentazioni dei genitali femminili – tra cui i più spettacolari quelli del Dinner Party di Judy Chicago. Il segno femminista si associa, invece, alle mobilitazioni successive alla pubblicazione del testo di Eve Ensler, Monologhi della vagina e alle più recenti manifestazioni contro la violenza alle donne. La Ensler ha lanciato il «V-day» nei campus americani nel 2000. La scelta della V come simbolo di quelle lotte è stata determinata, secondo la narrazione di Hawkesworth, anche da altri elementi: il segno della vittoria, che proviene dalla Seconda guerra mondiale, e il Valentine Day eletto come giorno per manifestare. Per dirlo con le sue parole, «vagine, violenza e la visione femminista di una vittoria che metta fine alla violenza contro le donne». Altre amiche femministe nordamericane confermano di aver visto il segno nei V-day oppure nelle foto e nei documentari sul femminismo europeo degli anni Settanta. A quel punto, sono in un vicolo cieco. Non è stato generato in Usa, questo segno dalla provenienza sfuggente – il che non esclude che sia stato utilizzato anche in quegli anni, ma di certo non è stato un elemento distintivo del femminismo americano. Riprende forza l’ipotesi di una origine europea del segno – ma da dove partire? È arrivato dalla Svezia o dalla Francia o dalla Gran Bretagna? Sicuramente non dalla Spagna, ancora sotto la dittatura franchista… Ma deve esserci stato un punto di approdo: chi sono state le prime a usarlo in Italia? Così, ricomincio dalle compagne del movimento femminista romano, per più motivi.
La tradizione di mobilitazioni pubbliche delle donne della capitale risultante da una tradizione antigovernativa di cortei e proteste maggiori rispetto alle altre città, come ha messo in luce Paola Bono durante l’intervista. E anche l’esistenza di un sentimento anticlericale – con un target molto visibile: l’epicentro della cultura patriarcale che sopravvive nel cristianesimo, il Vaticano, vissuto dalle donne come grande significante dispotico, se posso usare un termine lacaniano. La chiesa cattolica, in effetti, è stata un bersaglio delle iniziative femministe fin dall’inizio del movimento – che ha trovato una forte spinta propulsiva nella battaglia referendaria contro l’abrogazione del divorzio – vinta grazie allo scollamento delle donne cattoliche dai diktat dei preti. Il Vaticano, il moralismo bigotto, la democrazia cristiana, erano oggetto di una serie di invettive: «Tremate tremate le streghe son tornate». Forse il segno non ha una provenienza femminista, ma è stato coniato politicamente come provocazione anticlericale, forse dalle radicali del Cisa, o dalle lesbiche separatiste… Il punto di svolta nella ricerca è rappresentato dall’incontro con Edda Billi, dell’Associazione Federazioni Femministe Italiane; in un’intervista mi racconta del segno «del triangolo»: forse nato durante una manifestazione, una riunione… in quegli anni si cercava un gesto femminista da giustapporre al pugno chiuso, che ne avesse la stessa forza simbolica.
L’occasione sembra essersi presentata quando «all’inizio degli anni Settanta un gruppo di una decina di femministe del collettivo di Pompeo Magno a Roma si recarono a Parigi per un convegno – il primo sui crimini contro le donne. Si teneva alla Mutualité, era un posto grandissimo dove c’erano migliaia di persone, tutte sedute a terra, al microfono poteva parlare chiunque; ad un certo punto sono intervenute insieme due donne: Giovanna e una compagna greca che si chiamava Ronnie sono salite sul palco a parlare di lesbismo… poi hanno fatto quel segno». Grazie ad Edda Billi ho trovato il bandolo della matassa: Giovanna Pala, subito rintracciata e intervistata, mi ha raccontato le sue memorie di quella prima volta. Ho cercato nel marasma dei miei ricordi la ragione per cui quel simbolo… mi colpì tanto il giorno che lo vidi pubblicato sulla rivista di un giornale francese femminista. Certo, chi lo disegnò ebbe una intuizione geniale (…). «Le Torchon Brûle» è il titolo del giornale francese dove io vidi quel simbolo per la prima volta, ne uscirono solo 5 numeri, tra il ’71 e il ’73. Ripensandoci oggi, a distanza di tanti anni, penso che ne rimasi emotivamente colpita per l’immediatezza del messaggio che poteva comunicare «la forma della vagina!». Un messaggio con tanti significati: sfida, orgoglio, autogratificazione. (…) Siamo a Parigi con alcune compagne nella grande sala della Mutualité – quattro o forse cinquemila persone, uomini e donne. Sono le quattro giornate internazionali di denuncia dei crimini contro le donne promosso da Choisir (scegliere) un’associazione per la liberalizzazione dell’aborto. C’era un’atmosfera carica di pathos. Sul palco, una serie infinita di donne violentate, sfruttate, abbandonate con figli nell’indigenza, perseguitate dalla legge e obbligate alla prostituzione, lesbiche rinchiuse in manicomi, dipendenti licenziate perché avevano rifiutato le avances del capo. Crimini e discriminazioni di tutti i tipi, dai più comuni ai più efferati. Facciamo anche noi un intervento, mi propose Ronnie e io dissi: sì, andiamo a dire che siamo lesbiche! (…). Ricordo che nei giorni successivi l’atmosfera si era rasserenata. Messe da parte le testimonianze ci furono interventi di Simone de Beauvoir e di altre personalità della politica di sinistra, alternate a performance musicali di donne, filmati e testi recitati. E proposte concrete di azioni e strategie. Alcuni ragazzi alzarono verso il palco il classico simbolo marxista del pugno chiuso, e istintivamente mi venne di congiungere le mani, pollice e indice uniti a creare il simbolo della vagina. Mi pareva, con quel gesto di prendere le distanze dalla politica maschile e di affermare la mia diversità.
Tornata a Roma, ripetei il gesto alla prima manifestazione e il messaggio fu immediatamente recepito da tutte le donne presenti. In pochi mesi migliaia di donne in tutta Italia manifestavano con quel simbolo. E il settimanale L’Espresso, che era ancora formato-paginone, uscì con una mia grande foto in copertina e il simbolo da quel momento fu adottato in molte altre manifestazioni in tutta Italia… Poi, quando decidemmo di pubblicare Donnità, che curai insieme ad alcune compagne, misero le mie mani fotografate da Carol Spector sulla copertina. Quella che nei paesi anglofoni è stata definita «Vagina protest», invece, è un fenomeno più recente: pur avendo radici nel femminismo, le donne che si mobilitano talvolta definiscono se stesse come non femministe – altre mettono a segno azioni di guerriglia semiotica e si autonominano Vagina Warriors. Questo movimento si è formato attorno alla necessità di ri-significare ed emendare un linguaggio degradante e violento nei confronti delle donne – spesso identificate con i loro genitali in forme volgari o vezzeggiative, sempre inferiorizzanti – e ha per bibbia il testo di Eve Ensler, Vagina Monologues, diventato molto popolare nei campus a metà anni Novanta. Invita a una riflessione politica sulla violenza e sul piacere, dando voce ai genitali femminili: omessi o denigrati nelle pratiche discorsive dominanti, che ancora vogliono ridurre le donne a un ruolo riproduttivo che molte rifiutano.
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