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Le sfide dell’Europa dopo il voto francese

di Nadia Urbinati
lunedì 31 marzo 2014

La vittoria della destra ultra-conservatrice e anti-europeista al primo turno delle elezioni amministrative francesi era annunciata. E non è semplicemente una questione nazionale. Riguarda la sconfitta del Partito socialista francese, un pezzo importante dell’establishment politico continentale. Come non leggere in questa sconfitta il segno dell’erosione di uno degli ideali europei più vitali del ventesimo secolo? E da dove cominciare per comprendere le ragioni di questa erosione?

La storia politica del «Nuovo vecchio mondo», come ha definito l’Unione Europea Perry Anderson, è stata caratterizzata da quello che studiosi e opinionisti hanno denominato “deficit democratico”. Ora, fino a tempi recenti, questo deficit ha riguardato le istituzioni comunitarie non il progetto europeo. Infatti, sul piano della rappresentazione di sé ai suoi cittadini e al mondo, l’Europa ha personificato “valori universali” condivisi e si è proposta come un faro per i «diritti umani inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e dello Stato di diritto», come recita con orgoglio il Preambolo del Trattato di Lisbona. Su questo nucleo di valori democratici è nata l’utopia europeista di estendere i diritti fondamentali e sociali oltre i confini nazionali, per riuscire a governare la globalizzazione economica e proteggere la democrazia.

Oggi però il “deficit democratico” va ben oltre la gestione burocratica. Esso coinvolge i valori stessi. Le destre che si federano in tutti i paesi europei per dare l’assalto all’utopia europeista e conquistare il Parlamento di Strasburgo alle prossime elezioni di maggio sono il segno evidente di questo deficit complessivo di legittimità. La responsabilità prima è da imputarsi all’incompiuta integrazione politica dell’Unione per cui, mentre le competenze burocratiche si sono irrobustite, gli organi politici di accountability sono rimasti allo stato di crisalide. Una conseguenza accertata dell’interruzione del processo di integrazione politica è stato il consolidamento di una “dominazione esecutivista” (rubricabile nella categoria del dispotismo illuminato) che, in concomitanza con la crisi economica, si è rivelata essere uno dei fattori scatenanti dell’anti- europeismo populista. Una dirigenza europea distante, non controllabile per vie democratiche e in aggiunta espressione sempre più marcata dello squilibrio di potere tra gli Stati membri, e poi specchio degli algoritmi degli esperti di finanza che governano le banche e vogliono governare le politiche sociali: sono queste le accuse rivolte all’Ue che rischiano di minare il consenso sugli ideali. Che infiammano i populismi e i nazionalismi in tutti i paesi.

Dominazione esecutivista e ideologia antieuropeista stanno in un rapporto osmotico. Con la conseguenza che all’opinione pubblica la proclamazione della fedeltà ai principi rischia di apparire come una costruzione ideologica falsa, funzionale allo statu quo e smentita dai comportamenti politici della dirigenza europea. La sedimentazione di questa opinione anti-europeista (non più solo euro-scettica) è l’aspetto più temibile della politicizzazione dell’agenda europea che dominerà questa campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento, perché il suo linguaggio attraversa l’intero spettro politico e non è confinato ai partiti e movimenti di destra. E infine, perché si coniuga con mutamenti spettacolari nella politica internazionale europea.

Nel suo recente messaggio alla Spd, pubblicato su Repubblica, Jürgen Habermas ha messo in evidenza come a mettere in discussione l’Europa dei popoli non siano solo i militanti delle destre xenofobe ma anche i partiti europeisti come la Spd, responsabile di non contrastare la retorica anti-europeista e pensare di sfruttarla a proprio vantaggio mettendo l’interesse nazionale al primo posto. Una storia che ci fa ricordare quanto successo nel 1914, quando i partiti socialisti ruppero l’alleanza internazionalista per schierarsi con gli interessi dei loro rispettivi paesi, alimentando la crescita prepotente dei nazionalismi, poi confluiti con straordinaria celerità verso plebiscitarismi di massa, fascisti e populisti. In Europa, a partire almeno dal Settecento, i fallimenti dei progetti continentali di emancipazione secondo ideali universalisti hanno generato mostri.

Non vi è nulla di che consolarsi, nemmeno affidandosi all’illusione per cui sembra difficile uscire dall’Euro senza mettere a repentaglio il benessere degli Stati membri. Ma, si legge nei proclami dei partiti di destra, meglio sacrificarsi per i propri che per gli altri. Il mito della convenienza della moneta unica si erode insieme agli ideali europeisti, mentre vecchie politiche otto-novecentesche rinascono a oriente come a occidente. L’annessione della Crimea alla Russia e la politica imperial-nazionalista del Cremlino sanciscono la riapertura di un capitolo che il Trattato di Roma del 1957 sembrava aver chiuso.

Tutti i tasselli del nazionalismo sembrano convergere: la vittoria parigina della destra ultra-antieuropea accade mentre la Duma della reggenza Putin propone alla Polonia di spartirsi l’Ucraina. L’Unione Europa sta come un equilibrista sul filo teso su un baratro, senza rete protettiva. La politicizzazione dell’agenda europea trova conferma nel carattere ideologico e identitario di questa campagna elettorale per il Parlamento di Strasburgo, cominciata di fatto con le elezioni francesi di domenica scorsa. La lotta ideologica verterà essenzialmente sul significato dell’Unione Europea, andrà cioè ai fondamenti del patto che ha segnato la rinascita democratica del secondo dopoguerra. Che le destre nazionaliste e anti-europeiste siano state le prime a scaldare i muscoli è indicativo dell’alta posta in gioco simbolica di queste consultazioni elettorali: la tensione tra i “valori universali” di libertà e democrazia e quelli identitari, il potenziale risvolto anti-democratico della mancanza di lavoro, una vera piaga per l’integrazione europea e la stabilità politica del continente.

Prendendo sul serio il paradigma della politicizzazione, c’è da augurarsi che per contenere questa ideologia nazionalista si formi un fronte capace di convogliare il malcontento nei confronti della dirigenza di Bruxelles verso un programma alternativo riconoscibile a tutti. Per ora, i partiti dello schieramento di centro-sinistra si astengono dal posizionarsi in questo senso e si stanno anzi rendendo responsabili di aiutare la propaganda anti-europea blandendo il sentimento nazionalista nel tentativo di attrarre voti. Il paradosso è che mostrandosi tolleranti verso il linguaggio anti-europeista rischiano di incrementare la popolarità delle idee rivali nel tentativo di sfruttarle a loro vantaggio. Perché, quando si vota con argomenti identitari come in questo caso, gli elettori sanno riconoscere chi offre loro il prodotto originale da chi commercializza imitazioni.



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