Forse dovremmo smettere di chiamare “crisi” ciò che in Occidente, dopo 6 anni dalla sua comparsa, si sta sempre più rivelando come un profondo processo di ristrutturazione delle modalità di produzione, dei sistemi pubblici di welfare e, conseguentemente, di trasformazione delle relazioni sociali.
Il tessuto sociale già reso fragile dall’applicazione delle ricette neoliberiste (precarizzazione del lavoro, privatizzazioni, individualismo dilagante …) si è ulteriormente scomposto.
Una scomposizione che ha ricadute anche su ciascuna e ciascuno di noi, sulle nostre vite materiali e simboliche, tanto che per alcune/i si porrebbe addirittura una questione antropologica, cioè il senso stesso del nostro stare al mondo.
Mai come oggi ci sarebbe bisogno di un pensiero collettivo capace di farci immaginare un modello di società e di relazioni sociali differenti da quello che ci propongono i sistemi di potere dominanti (che poi son sempre gli stessi ed hanno sempre gli stessi nomi: patriarcato e capitalismo) e di una pratica politica capace di agire una rottura di senso, di pratiche, di relazioni.
Una rottura di questa portata costringe a porsi alcune domande di fondo.
Come si ricostruiscono rapporti sociali capaci di alludere ad un differente modello di società? Come si ricostruisce, per esempio, un legame sociale fra me, che mi batto per non perdere ciò che resta dei diritti conquistati e la nuova generazione per la quale parole come eguaglianza, diritti, ma anche lavoro sono quasi prive di significato perché la loro vita scorre in una dimensione di precarietà infinita che diventa la sola possibilità dell’esistere? Come si ricostruiscono cioè legami sociali fra le soggettività potenzialmente trasformatrici nella frammentazione delle condizioni materiali e simboliche?
Si potrebbe forse allora affermare che la società non può che essere ricostruita con la politica? A patto ovviamente di intendere la politica come impresa collettiva capace di ri-strutturare un pensiero sul mondo e di re-immaginare una prospettiva ideale capace di indicare una presa di posizione, dalla cui parte stare e nella quale riconoscersi (cioè per usare un termine antico: una classe).
Una politica destinata ad un compito così arduo avrebbe bisogno di teoria e di radicalità, per ri-aggiornare l’analisi sui sistemi di potere, sui rapporti di forza, sul significato del conflitto, sul senso della democrazia, andando alla radice delle “cose”.
Un andare alla radice delle “cose” che consentirebbe (finalmente) di cogliere l’eterno rimosso e cioè l’esistenza di un sistema di potere patriarcale che ha costruito sul genere femminile, ritenuto “naturalmente” portato a prendersi cura degli altri a prescindere da sé, l’archetipo della flessibilità e la struttura per qualsiasi altra alienazione. Ne abbiamo avuto una “prova provata” quando il capitalismo ha utilizzato la manodopera femminile per generalizzare le condizioni di lavoro storicamente prerogativa delle donne (precarietà, bassi salari, flessibilità, tempo parziale, ecc). Ed anche recentemente nel momento in cui si vorrebbe che l’azienda riconoscesse e valorizzasse le competenze che si formerebbero attraverso l’esperienza della maternità (fino ad oggi ritenuta impedente l’efficienza lavorativa) per aumentare la produttività dell’azienda stessa (si veda, per esempio, Ma a m / Maternity as a master)
Proprio quest’ultima considerazione mi porta a dire che mai come oggi il femminismo potrebbe costituire un buon punto di partenza per immaginare e praticare un nuovo modello di società e di relazioni umane. Un femminismo però che non accompagni, o peggio sostenga, i processi in atto ( mi vengono in mente il recente ed utile ”j’accuse ” della femminista americana Nancy Fraser ed alcuni scritti della filosofa e femminista francese Nicole Edith Thevenin) ma, al contrario, riscopra il carattere rivoluzionario della propria natura sociale e la potenzialità trasformatrice della propria funzione politica.
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