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Se fallisce il nostro IO esplode la violenza

di Massimo Recalcati
venerdì 21 giugno 2013

La spinta alla violenza cieca, alla sopraffazione, all’odio invidioso, alla distruzione dell’altro non è una patologia, ma accompagna da sempre, come un’ombra, la storia dell’uomo.

Non è un caso che l’Antico Testamento si apra con il gesto atroce e ingiustificabile di Caino. Il punto scabroso è che uccidere il proprio fratello non appartiene al mondo animale, ma al mondo umano. È un aspetto – terrificante – dell’umano sul quale non bisogna chiudere gli occhi. Il crimine non è infatti la regressione dell’uomo all’animale – come una cattiva cultura moralistica vorrebbe farci credere – , ma esprime una tendenza propriamente umana. Questo è il dramma che il moltiplicarsi recente di atti erratici di violenza ci costringe ad affrontare. Se l’umanizzazione della vita avviene come un attraversamento della violenza che ci abita – della nostra ombra più scura – , essa non può mai cancellare la violenza, ma decidere casomai, ogni volta, per la sua rinuncia.

È questo uno dei compiti più difficili che incombe sugli esseri umani: saper rinunciare alla violenza in nome del riconoscimento dell’Altro come prossimo, come essere singolare. Si tratta di un riconoscimento che non è mai indolore perchè ci obbliga ad accettare che “Io non sono tutto”, che la mia vita non esaurisce quella del mondo e quella degli altri. Significa sopportare quella che Freud considerava una “frustrazione narcisistica” necessaria per riconoscersi appartenere ad una Comunità umana. Il problema è che questa difficoltà soggettiva a simbolizzare la violenza viene oggi drammaticamente amplificata da quelli che mi paiono i due nuovi comandamenti sociali che sembrano dominare il nostro tempo e che l’attuale crisi economica rende a sua volta ancora più tossici. Il primo comandamento è quello del Nuovo.

È la spinta a ricercare sempre altro da quello che si ha, a scambiare quello che si ha con quello che ancora non si ha nella illusione che è quello che non si ha a custodire la felicità. L’esperienza clinica della psicoanalisi mostra invece che il Nuovo – al cui miraggio molti consacrano la loro esistenza – anziché rendere la vita soddisfatta, non fa altro che riprodurre la stessa identica insoddisfazione.

Il secondo comandamento è quello del Successo. Nessun tempo come il nostro sembra togliere diritto di cittadinanza al fallimento, all’errore, al ripiegamento, all’insuccesso. Nessun tempo come il nostro ha enfatizzato come una questione di vita o di morte la realizzazione del proprio successo personale. Ebbene la violenza su di sé o sugli altri viene al posto di questo lavoro di simbolizzazione del proprio fallimento.

Accade, per esempio, nei rapporti tra uomo e donna quando uno dei due non sopporta il tradimento o l’allontanamento dell’altro e si sente autorizzato ad agire violentemente per ristabilire l’autorevolezza della propria immagine narcisistica infangata e umiliata dalla libertà dell’Altro. Il femminicidio non ha altra ragione psichica – ne ha altre e profonde di tipo culturale – se non questa: utilizzare la violenza, il passaggio all’atto brutale, al posto di assumere su di sé il peso della propria solitudine e del proprio fallimento.

Una miscela esplosiva di narcisismo e depressione. Siamo di fronte a quella che Pasolini avrebbe probabilmente chiamato una “mutazione antropologica”: l’uomo è divenuto una macchina di godimento. E quando questa macchina funziona meno, non è oliata sufficientemente, non ha più benzina, o, più semplicemente, si guasta, si rompe, c’è la caduta nel vuoto. Per questa ragione l’attuale diffusione epidemica della depressione si può intendere solo dall’intreccio di questi due nuovi comandamenti sociali. Non è più una depressione che sorge dall’esperienza “filosofica” ed esistenziale del vuoto e dell’insensatezza dell’esistenza (Leopardi, Schopenhauer), ma si genera per un difetto di adattamento all’imperativo del Nuovo e a quello del Successo: chi resta indietro, chi resta tagliato fuori, chi non partecipa a questa “mobilitazione totale” della vita verso la sua affermazione positiva, si vive come superfluo, inutile alla società, precipita nel tunnel della depressione. E non si deve dimenticare come questa “diagnosi” sia usata ogni qualvolta ci si trovi di fronte ad atti di violenza ingiustificabili.

Non si tratta di un alibi, al contrario. Non a caso Lacan affermava – suscitando scandalo – che la depressione è una vera e propria “viltà etica”. Si tratta di una tesi non del tutto estranea al giudizio di condanna che i padri della Chiesa esprimevano sull’accidia e ha l’obbiettivo di mostrare che nella depressione c’è sempre una responsabilità del soggetto che non va mai dimenticata. Essa coincide con la difficoltà ad assumere, ad elaborare simbolicamente, il proprio fallimento, il proprio insuccesso, la ferita narcisistica subita dalla propria immagine.

Se non sono l’Io che credevo di essere (narcisismo), nulla ha più senso di esistere (depressione). Di fronte ad una cultura che sembra rigettare il valore formativo dell’esperienza del fallimento e che insegue i miraggi del Nuovo e del Successo, il ricorso alla violenza sembra apparire allora come un talismano malefico per esorcizzare l’appuntamento fatale con la nostra vulnerabilità e insufficienza dalla quale, poiché – come canta il poeta – dai diamanti non nasce niente, potrebbero sorgere invece fiori nuovi.



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