Temo proprio di avere una venatura consumistica; e il peggio è che non riesco a pentirmene. Forse non è un grosso peccato, forse non è un peccato per niente. Peccato è venir posseduti dalle cose, non già liberamente possederle. È ben vero che col termine «consumismo » intendiamo, di solito, proprio il venire posseduti; e questo – è chiaro – è una grave mancanza di povertà e di libertà;ma consumismo viene da «consumare» che è un verbo nobile e denso. Consumare si dice del matrimonio, si dice del sacrificio e dell’eucaristia. Ed è in questo senso che dovremmo offrire e «consumare» le cose. So bene che sto facendo un discorso rischioso e che si presta a tutti gli alibi. Ma, fatto da qui, forse è un discorso non sospetto, poiché qui di ricchezze non ne ho molte e sperimento un po’ di libertà: quel saper fare a meno delle cose che è piú importante del fare a meno di fatto, quando la privazione fosse imposta e non scelta, dato obiettivo e non espressione di un valore. E anche qui la trappola del ricco, che si contenta della povertà «affettiva», scialando a scapito del povero, è dietro all’angolo, pronta a scattare; lo so bene. E per questo un discorso del genere – per non puzzare di giustificazione – può venir fatto, in maniera credibile, solo da un povero: da uno, cioè, che, oltre al saper fare a meno, sperimenta quel fare a meno di fatto che, di quel primo, è la riprova. E sono situazioni incrociate. Perché il fare a meno è riprova del saper fare a meno; ma il saper fare a meno è anche la condizione dell’usare, poiché chi perde la propria vita la salva e chi rinuncia a qualcosa per il regno, oltre alla vita eterna, riceverà quaggiú il suo centuplo. L’espressione di valori essenziali Fanno parte del mio centuplo anche i regali che ricevo. Io amo molto la dimensione del dono; e non mi dite che questo è consumismo. Il dono è l’espressione tangibile di valori essenziali, quali il dare e il ricevere che sono alla radice dell’essere e della vita stessa del nostro Dio trinitario. Il dono significa generosità e umiltà, attenzione e accoglienza, distacco e gratitudine, senso dell’amicizia e del debito... No, non ditemi che tutto questo è consumismo. Consumistico sarà quel «dono» dispendioso e senz’amore che facciamo per adulazione, per ambizione, per prestigio e per calcolo. Ma questa è solo espressione di vanità, di interesse, di astuzia; col dono vero non ha niente a che fare. I doni veri mi piace farli e riceverli; e non so neanche quale delle due cose preferisca, ma forse, in quanto donna e in quanto povera, mi piace piú riceverli: confessare il bisogno e aprirmi all’accoglienza e alla riconoscenza: l’atteggiamento che abbiamo verso Dio e che è tanto bello, giusto e dolce avere anche verso gli uomini. Ricevere doni è ricevere amore, accoglierlo e scaldarlo, dentro di noi, come un piccolo seme concepito. Un povero riceve tanti doni; specie un povero come me che è ricco – ricchissimo – di amici. Credo proprio di averne in ogni parte del mondo; ma, com’è naturale, i doni mi giungono soprattutto dai piú vicini: quelli di Ivrea e anche quelli, ultimi, che ho trovato nei pressi del Molinasso. Nel mio bilancio risicato non so se mi restassero i soldi per il vino; ma quasi che la gente di qui lo intuisca, me lo fornisce. L’anno scorso Battista me ne ha donato due damigiane; e un’altra famiglia del paese è sempre pronta, con i suoi bottiglioni. Da quando sono qui non ho mai comprato vino e non mi è mai mancato. E poi Giacomo che arriva col suo cestino pieno di qualche cosa che io non ho. Guarda l’orto e provvede a colmare le lacune: uva, fichi, le sue rape che, quest’anno, sono piú belle delle mie (ma qualche volta succede anche il contrario) o qualche pezzo di lardo del suo maiale appena macellato. E cosí gli altri miei vicini. Qui, in inverno, come quasi dovunque, in campagna, si macella il «crin»; ed è consuetudine che i contadini se ne scambino un poco, tra di loro e magari ne diano a chi non ce l’ha. È il caso mio che, in porco, non posso ricambiare e spesso neanche in altra moneta. Ma i miei vicini non fanno questo calcolo e tutti mi portano qualcosa: lardo, carne da arrosto, salami. E quando, qualche volta, do loro in dono una bottiglia che vale infinitamente di meno, quasi hanno l’aria di stupirsi: «Oh, che regalo!» Ma la stagione dei doni è il Natale. Quest’anno un amico è sceso giú da Aosta, con un libro e un’icona valdostana; e un sacerdote da Saint Jacques con il baule della macchina sempre ripieno e generoso: vino, grappa, caffè... E gli amici di Ivrea, di Albiano, di Azeglio, di Colleretto, di Rivarolo: panettoni, scialli caldi, vini pregiati... perfino una boccetta di profumo. Che scandalo, che mondanità in un eremo! Ma io mi ricordo che i profumi erano una delle grandi passioni di Maometto; e anche il Signore non dimostrò di disdegnarli. Nella liturgia orientale se ne fa grande uso; noi qui ci contentiamo dell’incenso (e anche per quello ho degli amici fornitori). Di mio c’è la gratitudine. Un vescovo (ho vari amici anche tra loro:ma sarà meglio non dire chi sono perché potrei comprometterli) un anno, per Natale, mi regalò una spilla, ricordo di uno dei suoi viaggi. Pareva un po’ perplesso e imbarazzato: «A una persona come te, – mi disse, – non si sa cosa dare». Ma forse è proprio a una persona come me che si può dare qualche po’ di «superfluo» (ma dov’è mai che comincia il superfluo?) perché altrimenti non lo comprerebbe. Poi ci sono i regali che arrivano per posta. Se faccio il calcolo mentale di ciò che mi è giunto quest’inverno, tutta l’Italia vi è rappresentata: Lombardia, Trentino, Emilia, Romagna, Veneto, Liguria, Marche, Toscana, Lazio, Sicilia... perfino due calze calde dalla Francia. Nel pranzo natalizio guardo sul tavolo e conto gli amici presenti con qualcosa: chi il dolce, chi la frutta, chi il vino, chi il caffè e le ciliegie sotto spirito. Spesso, di mio, c’è solo la tovaglia, solo la gratitudine. Con questo non vorrei che pensaste che gozzoviglio tutti i giorni; ma non vorrei neanche che pensaste che mi «consumo in penitenze». Ho buona salute e ottimo appetito; e, se qualcuno mi regala un dolce, ringrazio Dio e gli uomini. Anch’io faccio i miei doni, ma non posso competere. I miei regali sono poveri però, in compenso, originali e fantasiosi: nidi d’uccello, pelli conciate di coniglio, coppie di porcellini d’India, erbe aromatiche, penne (sí, a un’amica romana ho spedito la veste di due oche: potrà farne un caldo e morbido piumino). Qualche volta il dono è un po’ piú consistente: un coniglio o un pollo. Se invece sono a corto, pigne, pannocchie di granturco, zucchine ornamentali, bacche, pezzi di natura che portano un po’ di campagna dentro le case e forse aiutano a scoprire la bellezza e il valore delle cose.
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