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La rinascita della politica

di Nadia Urbinati
mercoledì 6 giugno 2012

La crisi della politica nel nostro paese è la crisi dei partiti politici. In primo luogo, di quelli che si collocano nella parte ideologica di centrosinistra e rappresentano le idealità democratiche in un senso che è comune a tutti i paesi a democrazia consolidata. È necessario tenere insieme ragioni nazionali e sovrannazionali, poiché la crisi di progettualità politica è l’esito di una costellazione di fattori che sono difficilmente disaggregabili. Se in Italia la crisi della politica democratica è così pronunciata è perché alla crisi di progettualità è corrisposta anche quella strutturale e organizzativa, ovvero la scomparsa fisica dei partiti tradizionali della sinistra.

Continuità e memoria

La fine dei partiti della sinistra italiana ha ragioni strutturali e contingenti che posso solo schematicamente ricapitolare. È l’esito della parabola declinante delle ideologie di emancipazione e liberazione che hanno segnato molta parte del XX secolo. Ed è poi conseguente a scelte politiche specifiche da parte della classe dirigente dei partiti che si sono succeduti dalla fine del PCI e del PSI. Queste scelte hanno peccato spesso di scarsa saggezza perché hanno ignorato un fatto che è importantissimo: le associazioni politiche per resistere e accrescere di influenza devono riuscire a creare una memoria e avere esse stesse una memoria. I teorici che hanno per primi liberato la divisione partitica dallo stigma della malapianta della fazione furono due conservatori: Henry St. James Bolingbroke e Edmund Burke, il primo operò nella prima metà del Settecento e il secondo alla fine di quello stesso secolo. Entrambi videro nella “divisione” sul giudizio della politica del governo una condizione indispensabile per la tenuta e la funzionalità del sistema rappresentativo; ed entrambi sottolinearono che la “divisione” partigiana è sana ma non quando è in ragione degli interessi di ceto o di privilegi; la divisione è sana quando è ideologica oggi diremmo, ovvero quando riguarda l’interpretazione del cammino comune che una società ha fatto, fa e dovrebbe fare. Uniti nel patto costituzionale, gli interpreti del patto sono diversi e questa diversità è positiva perché costruisce l’identità dei programmi politici che competono per il governo del paese.

Costruire una memoria partigiana (cioè di partito) è la condizione per il radicamento della democrazia e dei partiti. Dove il governo rappresentativo è forte, come in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, i partiti sono vecchi quasi quanto quei regimi politici e sono strutturati secondo ideologie, lealtà e perfino trasmissione familiare – e non perché abbiano ideologie di tipo religioso come quelle che hanno costituito i partiti della sinistra italiana. Il partito ha bisogno di un nucleo ideale per esistere e persistere, ma non è necessario che questo nucleo abbia una struttuta dogmatica. Ci sono partigianerie laiche, se così si può dire, che fanno perno sui valori democratici e della storia comune di una nazione.

La storia del declino dei partiti della sinistra italiana è rivelatrice della mancanza di ideologie laiche e nello stesso tempo della credenza, sbagliata, che per riformare i partiti occorresse distruggerne il tessuto ideale e organizzativo. I cambiamenti repentini e continui del nome e delle bandiere di partito – cioè dell’unità simbolica che rende un partito riconoscibile a chi vi aderisce e agli avver- sari – ha impedito la sedimentazione dell’unità ideale. In Italia, dalla fine della guerra fredda e per scelta in un caso (PCI) o per necessità nell’altro (PSI), i partiti della sinistra sono diventati come comete o come zone terremotate – benché i leader siano restati grosso modo gli stessi. Sono partita da questa storia risaputa perché la demolizione della memoria politica è secondo me un fattore della crisi della politica che segna il nostro paese da vent’anni; un fattore che ipoteca il futuro poiché nemmeno volendolo possiamo inventare soluzioni salvifiche veloci. Il “largo ai giovani” – come se i giovani venissero da un altro pianeta – non è né sarà la soluzione. Radere al suolo una leadership è un’arte giacobina dagli effetti perversi; la controrivoluzione berlusconiana è anche figlia della decapitazione della classe politica nazionale. Per concludere il primo spunto di riflessione direi che la crisi della sinistra italiana non passerà né con un atto di volontà di alcuni né con un ennesimo cambiamento di nomi e simboli. Prendere consapevolezza di questo può essere utile. La rinascita della politica partitica dovrà passare per un’altra strada, quella più lenta della riflessione sulle mutazioni in corso nelle società democratiche.

Una mutazione epocale

Le ragioni specifiche del declino della sinistra italiana si sono incontrate o hanno coinciso con l’emergere prepotente di un fattore di mutamento ancora più profondo e che attraversa tutte le democrazie consolidate dell’Occidente. Questo mutamento può essere rappresentato come la fine del compromesso tra capitalismo e democrazia in seguito al mutamento del capitalismo da industriale a finanziario. La combinazione di capitalismo e democrazia è stata un compromesso tra proprietà dei mezzi privati di produzione e suffragio universale, per cui chi possedeva i primi ha accettato istituzioni politiche nelle quali le decisioni prese a maggioranza erano l’aggregato di voti di uguale peso.

Il keynesianismo ha dato i fondamenti ideologici e politici di questo compromesso, e lo ha fatto rispondendo alla crisi del 1929 che lasciò sul tappeto una disoccupazione tremenda e regimi totalitari. Il compromesso consistette nell’assegnare al pubblico un ruolo centrale poiché invece di assistere i poveri come lo Stato aveva fatto nei decenni precendenti, li impiegava o promuoveva politiche sociali che creavano impiego. Si trattò di un cambiamento anche rispetto alla scienza economica che passò dal mito del laissez faire alle politiche economiche programmatiche dei governi centrali. Questo comportò l’incremento della domanda e la ripresa dell’occupazione. Come ebbe a dire Léon Blum, una migliore distribuzione può rivitalizzare l’occupazione e nello stesso tempo soddisfare la giustizia sociale.

L’esito del compromesso tra democrazia e capitalismo industriale fu che i poveri diventarono davvero i rappresentanti dell’interesse generale della società: la loro emancipazione bloccò le politiche restauratrici della classe che possedeva il potere economico. L’allargamento dei consumi privati mise in moto il più importante investimento, quello sulla cittadinanza. La politica del doppio binario “piena occupazione ed eguaglianza politica” fu la costituzione materiale delle Costituzioni democratiche dalla fine della seconda guerra mondiale. L’esito fu che l’allocazione delle risorse economiche – dal lavoro ai beni sociali e primari ai sevizi – fu dominata dalle relazioni delle forze politiche. I partiti politici si incaricarono di gestire la politica, di essere rappresentanti delle forze sociali, le quali rinunciavano a fare da sole.

Quel tempo è finito e non soltanto perché i partiti politici sono diventati accumulatori di potere invece che luoghi di mediazione per la gestione del potere e la distribuzione delle risorse. La “casta” non è la ragione della crisi che stiamo vivendo, ma semmai la conseguenza. La combinazione tra democrazia e capitalismo si è interrotta, il compromesso è sospeso e le classi sono tornate a prendere nelle loro mani le decisoni, in particolare la classe che ha il potere economico. Il declino dei partiti (un fenomeno che non è solo italiano) non ha soltanto fattori politici alla sua origine. La fase nella quale lo Stato si curava dell’emancipazione delle classi oppresse è chiusa. Ora è l’altra classe a gestire le relazioni pubbliche. Non c’è bisogno di scomodare Carlo Marx per registrare questi mutamenti. La diagnosi è alla portata di tutti.

L’ideologia keynesiana poteva funzionare fino a quando l’accumulazione del capitale andava negli investimenti produttivi e nell’allargamento del consumo. Negli anni Ottanta una nuova filosofia ha cominciato a prendere piede perché un nuovo capitalismo si è affermato: politica di diminuzione delle tasse per consentire una nuova ridistribuzione, ma questa volta a favore dei profitti, con la giustificazione per gli elettori che ciò serviva a stimolare gli investimenti. Però la riduzione delle tasse non ha liberato risorse per gli investimenti produttivi ma per quelli finanziari. Il tipo degli investimenti è quindi cambiato con il capitalismo della rendita finanziaria. Quale compromesso la democrazia potrà siglare con questo capitalismo?

A partire dagli anni Ottanta l’accumulazione si è liberata dai lacci imposti dalla democrazia; l’accumulazione si è liberata dai vincoli dell’investimento imposti dalla filosofia della piena occupazione. La nuova destra ha preso corpo, quella che ha promosso piani di detassazione dei profitti, di abolizione dei controlli sull’impatto ambientale e sulle condizioni di lavoro (l’aumento degli incidenti sul lavoro non è accidentale), l’indebolimento dei sindacati e il loro riorientamento dalla contrattazione nazionale a quella aziendale, le liberalizzazioni. Questa fase, che è quella sulle cui conseguenze l’Europa si sta dibattendo negli ultimi mesi, impersona a tutto tondo una nuova società, una mutazione della democrazia. Verso quale direzione?

Nel passato keynesiano, la rottura del compromesso per imporre la fine di politiche sociali si era servita di strategie anche violente: il colpo di Stato in Cile nel 1973 impose una svolta liberista radicale e immediata. È difficile pensare a qualcosa di simile oggi, nel nostro continente, benché la storia insegni a “mai dire mai”. Un altro cambiamento, forse meno indolore seppure non assolutamente senza sofferenza, è quello che si sta profilando a chiare lettere in questi anni: la depoliticizzazione delle relazioni economiche. Non la soppressione violenta della libertà politica ma alcuni mutamenti rilevanti: ad esempio la diminuzione della partecipazione elettorale, la trasformazione dei partiti in macchine elettorali e la concentranzione dei mezzi di informazione, sono mutamenti che incidono sul tenore e sulla fisionomia della democrazia pur senza sospenderla.

La democrazia che aveva siglato il compromesso con il capitalismo industriale aveva rivendicato la natura politica di tutte le relazioni sociali, e i diritti civili bastavano a limitare il potere decisionale delle maggioranze. In questo modo la politica democratica entrava in tutte le pieghe della società ogni qualvolta si trattava di difendere l’eguale libertà dei cittadini. Con la fine di quel compromesso, la politica arretra progressivamente, e soprattutto fa giganti passi indietro nel mondo del lavoro e delle relazioni industriali. Il lavoro torna a essere come nell’età pre-keynesiana un bene solo economico, fuori dai lacci del diritto e della politica. La battaglia sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ha questo significato.

Si è detto che questo articolo aveva comunque poco impatto operando su aziende medio-grandi mentre l’Italia ha in maggioranza aziende medio-piccole o familiari. Allora perché? Perché, si è detto, lo vogliono i mercati, gli investitori. È una decisione simbolica, un segnale. E perché i mercati hanno bisogno di questo tipo di segnale? La risposta si ricava da quanto detto fin qui: la regia della nuova democrazia non deve più essere la legge, il legislatore, lo Stato, ma il mercato. Perché una parte importante della sfera sociale deve tornare a essere privata, e quindi cacciare l’interferenza della politica. Il limite della “giusta causa” che l’articolo 18 imponeva era un limite che segnalava la priorità del pubblico sul privato: il datore di lavoro doveva rendere conto della ragione della sua decisione di licenziare. Quell’articolo rispecchiava quindi la filosofia del compromesso di democrazia e capitalismo, perché stabiliva la libertà dal dominio per tutti, dal non essere soggetti alla decisione altrui, senza altra ragione che la volontà arbitraria di chi decide.

Valutando questa fase di restaurazione delle relazioni politiche tra le classi dovremmo porci la seguente domanda: una società nella quale l’accumulazione è libera da ogni vincolo politico, da ogni limite di distribuzione, da ogni considerazione di impiego che non sia il profitto, da ogni responsabilità verso l’ambiente, la salute di chi lavora e di chi consuma, che tipo di società sarà?

Le sfide

E vengo così alla terza e ultima parte della mia riflessione, che verte sul bisogno di politica e, per quanto riguarda il nostro paese, sulla necessità di uscire prima possibile dal dopo Berlusconi, di chiudere quella che è stata chiamata la fase del governo di emergenza prima di tutto per l’inadeguatezza del governo democraticamente eletto nel 2008 e poi perché come una guerra la crisi finanziaria ed economica ha chiesto e chiede ai governi di prendere decisioni che sono così impopolari che nessun partito può perseguirle pena la perdita dei consensi elettortali. La dialettica politica e partitica mal si adatta ai tempi di emergenza, non c’è bisogno di scomodare Carl Schmitt (il quale del resto sta godendo di grande successo anche negli Stati Uniti dove si invocano esecutivi forti e meno condizionati dal Congresso, luogo di mediazioni e compromessi che rendono le decisioni stentate, lente e deboli). In Italia noi abbiamo un governo dell’emergenza. Quello di Monti è un governo ad interim che per unanime consenso è temporaneo perché di emergenza. Secondo gli scettici della democrazia parlamentare, nei momenti di crisi radicale serve un forte esecutivo che risolva l’impotenza della deliberazione collettiva a decidere con celerità e senza calcoli elettoralistici. In questi mesi di guerra dei mercati finanziari agli Stati democratici, la politica è stata messa all’angolo.

Il fatto poi che l’Italia abbia avuto per anni un governo a dir poco imbarazzante ha reso il silenzio della politica addirittura desiderabile. Ma la politica deve uscire dall’angolo e tornare a coprire il suo ruolo di governo della società per mezzo della libera competizione di programmi e idee. In un’intervista rilasciata qualche settimana fa al quotidiano “la Repubblica”, Gustavo Zagrebelsky ha richiamato l’attenzione sulla provvisorietà di questo tempo e l’urgenza di «riportare in onore la politica», affinché le forze politiche non siano più ridotte «al mugugno o al mugolio» ma parlino, facciano proposte e sappiano rimettere il futuro, la progettualità, al centro del presente.

La rinascita della politica vuol dire ripristino del linguaggio politico; ridare spazio al progetto di governo della società, non per l’oggi soltanto, e senza prostrazione a un’idea dominante che non tollera opinioni discordanti. È questa apertura al possibile che oggi non ha ossigeno. Perché le sfide che la incalzano parlano un solo linguaggio, quello della necessità. Sono almeno due le sfide più impegnative. La prima è quella che conosciamo con il nome di liberismo o neoliberalismo. Nato insieme allo Stato con funzione sociale e per combatterlo, ha nel tempo assunto diverse conformazioni a seconda del tipo di Stato sociale da limitare e del tipo di mercato da rafforzare. Il liberismo che governa oggi i paesi occidentali e che trova facile via di penetrazione attraverso la retorica dell’emergenza impersona il potere impersonale (il bisticcio è voluto) della finanza: detta regole agli esecutivi e ai parlamenti, non accetta trattativa o compromessi. È quanto di più lontano ci sia dalla politica democratica. Ed è questa la teologia della necessità contro la quale la politica come governo del possibile si dimostra incapace di articolare un linguaggio altro dal “mugugno o mugolio”. La rinascita della politica non potrà che partire di qui: dal rispondere a questa sfida, e saper dire come riportare i valori democratici al centro della progettualità, di quel che siamo e vogliamo essere come paese (questa ricerca è già cominciata, come mostra la recente riunione parigina delle maggiori fondazioni politiche della sinistra europea). Diceva Norberto Bobbio che nelle democrazie la sfida non sta tanto nella risposta alla domanda “chi” vota, ma “dove” si vota, cioè in quali ambiti di vita la ragione pubblica opera. La prima sfida alla politica sta nella seguente domanda: come si deve rispondere a coloro che sostengono che le relazioni economiche non devono più sottostare alla ragione pubblica? Ovvero, per riprendere il filo del secondo argomento qui sviluppato, come si deve attrezzare la democrazia elettorale al mutamento del capitalismo, alla sua richiesta di essere libero da ogni obbligo verso la comunità?

La seconda sfida, conseguente alla prima, è quella che si materializza nella debolezza delle sovranità nazionali. Poiché a queste domande, nessun paese da solo può pensare di dare una risposta. Le interconnessioni globali si sono così addensate che nessun governo ha da anni ormai la capacità di progettare e programmare politiche nazionali e sociali senza coordinazione e cooperazione con altri governi. L’Europa è stata da questo punto di vista una creazione lungimirante. Il Vecchio continente ha saputo intercettare con utopica prudenza l’esigenza di una politica sovrannazionale. Oggi, questa potenziale ricchezza rischia di essere dissipata o deturpata a causa dello sbilanciamento di potere economico e finanziario degli Stati membri. La seconda sfida che la politica dovrà affrontare sta in questa domanda: è possibile un’unione tra partner che non sono equipollenti e quando alcuni dominano e tengono altri sotto tutela? Il problema è serissimo poiché vediamo che gli Stati europei hanno idee discordanti su che cosa sia o debba essere l’Europa perché hanno un potere di decisione diverso. Un’unione tra diseguali non è un’unione. Riportare la politica al centro del governo europeo è urgente poiché di qui passa la rinascita della politica a livello nazionale.

Sono queste le due grandi sfide alle quali la politica deve riuscire trovare risposte. Un primo tentativo di rinnovamento è venuto dai movimenti che hanno preso il nome di Occupy Wall Street. Il loro linguaggio è stato quello, giustissimo, della protesta; ma al dissenso non è seguita alcuna domanda che lasciasse intravedere risposte credibili. Eppure, in quella idea di “comunità globale” c’è un’intuizione importante poiché dalla capacità delle società democratiche di pensare in termini che vadano oltre i singoli Stati dipenderà la loro possibilità di ridefinire il rapporto tra democrazia e capitalismo. Senza il quale la prima non ha certezza e il secondo si fa selvaggio. Senza il quale ci troveremo sempre in uno stato di emergenza, con la politica sospesa e governi ad interim permanenti.

Un’indicazione sul percorso verso la rinascita della politica e la risposta a queste sfide ci viene dall’esperienza di questi mesi di governo di emergenza nel nostro paese. Sappiamo ora con provata certezza che nessun diritto è sacrosanto e nessuna conquista è al riparo da cadute, anche quando incardinata nelle leggi e coerente al dettato costituzionale. Sappiamo che la democratizzazione che aveva elevato l’Europa del secondo dopoguerra a stella polare di civiltà può essere bloccata e cambiata nel suo significato. Sappiamo, in sostanza, che non tutti i cittadini e le cittadine, e poi non tutti gli Stati, hanno eguale peso nel processo decisionale. Di fronte a questa incrinatura palese della democrazia l’assenza della politica è disarmante e rischiosa. Ma sapere da che parte si sta è già un primo importante passo verso la rinascita. La rinascita della politica non sarà probabilmente un fatto repentino, nè avverà dall’oggi al domani. Il declino della partecipazione al voto che tutti i sondaggi stanno misurando, in Italia come nel resto dei paesi occidentali, è segno profondo di quanto grande sia la distanza tra il bisogno di risposte politiche da parte dei cittadini e la volontà o la capacità dei soggetti politici che dovrebbero darle. La rinascita della politica coincide quindi con la ricostituzione del Partito Democratico intorno a un progetto politico che sia consapevole di questi mutamenti che sono epocali, non solamente a livello nazionale, e soprattutto senza la certezza che si possano governare con gli strumenti con i quali sono stati finora governati.



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