Urgenza. Non riesco a trovare un altro termine per sintetizzare il sentimento che ha spinto i proponenti del documento Per un nuovo soggetto politico a uscire allo scoperto ora: la sensazione della necessità, impellente, di un gesto, di una parola, di una proposta che aiutino a spezzare il rapido processo di logoramento prodotto dall’intreccio perverso tra crisi economica e crisi politica. A rompere la situazione di stallo, come di chi, in provvisorio equilibrio, sa che può in ogni momento riprendere a precipitare. I fatti di questi giorni sono, da questo punto di vista, esemplari. Da una parte l’"editto coreano" del premier tecnico Monti - «Se non siete pronti, ce ne andiamo» -, dice quanto sia duro, oggi, il "dispotismo della realtà". Quanti pochi margini il nuovo potere sovrano globale (i mercati) lasci all’autonomia del politico. Ma anche quanto destabilizzante per gli stessi equilibri istituzionali possa essere la politica (questa politica), col suo carico di ritualità, gioco delle parti, autoreferenzialità, nel momento in cui fa un passo avanti, esce dall’afasia del patto di novembre e si riprende qualcuna delle proprie prerogative alienate ai tecnici. Dall’altra parte la vicenda della cosiddetta riforma del mercato del lavoro rivela, se ancora ce ne fosse bisogno, quanto logorante e, diciamolo pure, devastante per la società possa essere il lavoro di "risanamento" dei tecnici, a cui la politica dovrebbe sottomettersi. Quale prezzo, inestimabile, in termini di coesione, sicurezza, diritti, dignità, cittadinanza, si paga, ogni giorno di più, sull’altare dello spread, per un’azione di governo che (lo si sapeva dall’inizio, ma la cosa si fa di giorno in giorno più chiara) allontana nel tempo il rischio del fallimento solo erodendo, nel contempo, ogni possibilità di ripresa. Evita la crisi terminale, solo cronicizzando la malattia e dissanguando il malato... L’immagine, evocata di recente da Luciano Gallino, degli sventurati boscaioli di Brecht che segavano allegramente il ramo su cui erano seduti, e della piccola folla di spettatori che dopo aver assistito all’impresa si arrampicano anch’essi sul proprio ramo con le accette in mano, è assai efficace. E ci dice quanto disperata sarebbe la nostra situazione se davvero dovessimo convincerci che - come in molti, sui media e nel Palazzo, sostengono - tertium non datur, tra questa politica e questa tecnica. Tra il dèfault dell’economia e la lenta nécrosi del tessuto sociale. Ebbene, noi vogliamo credere (sperare?) che un tertium datur. O, per lo meno, che la sua possibilità vada verificata. Riavvolgiamo il film di dodici mesi. Ritorniamo alla primavera del 2011, prima che il quadro andasse in pezzi. Allora, sull’ asse temporale che va dalle elezioni amministrative in alcune città di rilievo alla tornata referendaria sui beni comuni, era avvenuto un evento illuminante - un piccolo miracolo - sul cui significato profondo non si è abbastanza riflettuto. Prima, gli elettori di due città-simbolo come Milano e Napoli avevano scelto come sindaco due outsider, due "eretici" (per certi versi due intrusi) rispetto ai partiti maggiori, su cui prima del voto quasi nessuno tra i professionisti della politica avrebbe scommesso un centesimo. Poi 27 milioni di italiani erano usciti di casa, ed erano andati con i loro piedi ai seggi, per votare su questioni che riguardavano direttamente la loro vita in comune, le loro esistenze quotidiane, i loro beni collettivi... Presi dall’entusiasmo del momento, nei commenti a caldo, ci si fermò alla superficie più contingentemente politica: ha perso Berlusconi e il centro destra che volevano tenere la gente a casa, ha vinto il centro sinistra che ha chiamato alla mobilitazione. Ma in realtà il significato di fondo di quel pronunciamento andava ben al di là della questione degli schieramenti e del rapporto governo-opposizione, per coinvolgere il problema ben più di fondo del rapporto tra pubblico e privato e - se vogliamo - del modello di vita che vogliamo. E per lanciare, con ciò, un messaggio drasticamente contro-corrente. Una domanda esplicita di rottura con quello che era stato il senso comune degli ultimi decenni, segnati dall’egemonia di un pensiero unico articolato in vari dogmi: l’affermazione di un individualismo spinto fino alla negazione di ogni istanza collettiva o comunitaria, il mercatismo come unica ideologia ammissibile, il primato assoluto dell’interesse privato sulla dimensione pubblica, il conto economico profitti-perdite come esclusivo criterio di regolazione delle scelte individuali e collettive. Non solo: ponendo al centro di quell’ondata di "si" il tema dei beni comuni - di ciò che essendo comune non può essere trattato come un bene normale (come una merce), che si può comprare e vendere a seconda dell’utilità del momento - quel movimento tellurico imponeva un nuovo concetto del rapporto tra pubblico e privato. E una nuova struttura della stessa sfera pubblica, non riducibile, con tutta evidenza, ai codici, in sé privatistici, del mercato ma anche - e in questo credo che stia la novità radicale di quel voto - non più identificabile tout court con la sfera politica, come era stato nel lungo ciclo novecentesco. Non più monopolizzabile dalle rappresentanze istituzionali, dai mandatari generali, dalla classe politica, perché in essa si decide di beni indisponibili, direttamente implicati con il sistema di legami della comunità, con la vita relazionale, con ciò che sta nel e sul territorio e da quei beni dipende nella qualità della propria esistenza, nella sopravvivenza dei propri rapporti quotidiani, nella possibilità di immaginare un proprio futuro (tutti valori, questi, che per durata e importanza vanno ben al di là di un mandato elettorale e che si potrebbero ricondurre alla categoria sintetica di bio-politica). Ora, noi crediamo che quella possa essere una risorsa preziosa, da spendere nell’emergenza: questa nuova dimensione dello spazio pubblico in cui già si muove un reticolo di comunità di cittadini determinati a riappropriarsi di ciò che è comune (beni, servizi, diritti) rivendicandone l’inalienabilità, al di là di ciò che possono decidere i loro rappresentanti istituzionali. Questa sommersa, e troppe volte frustrata, volontà di partecipazione, di "far da sé", che richiede un tipo di pratica e un modello di organizzazione politica radicalmente altri rispetto a quelli prevalsi fino a ieri, incentrati invece sulla stretta identificazione di sfera pubblica e di sfera politica con un tendenziale primato della seconda (in quanto luogo di espressione della forma-partito come unico soggetto dotato di voce e di legittimazione ) sulla prima. A questa galassia - certo eterogenea, ma pervasiva e tenace - si rivolge il documento, nell’intento di tracciare il profilo di un modo più adeguato di stare dentro a questa inedita spazialità, radicalmente diverso da quello davvero frusto del mainstream. Forse più un modello di soggettività nuova che non il progetto di un nuovo soggetto. O comunque una forma di rottura della soggettività come precondizione per la nascita di un attore collettivo all’altezza dei compiti attuali. Per questo nel testo le indicazioni di metodo pesano e valgono quanto quelle di merito. Le forme dell’azione collettiva, lo stile dei comportamenti, il peso degli affetti e delle passioni accanto a quello delle tecniche di partecipazione (i tanti fattori di cui Paul Ginsborg ci ha insegnato in questi anni l’importanza) sono parte del programma tanto quanto gli obiettivi. I quali non si propongono - sia ben chiaro - la moltiplicazione dei soggetti (o dei micro-soggetti) politici con l’aggiunta di un nuovo irrilevante partitino, ma l’apertura di un percorso che abbia come sbocco la nascita di un protagonismo forte, capace di determinare - come sta scritto nel testo - «una trasformazione complessiva, con l’ambizione tutt’alto che minoritaria, di mettere in campo un’Altra Italia».
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