Già l’anno scorso, se non ricordo male, in un articolo comparso sul “Manifesto” Vertova e Vincenti, l’una economista e l’altra sociologa, hanno invitato a riflettere sulle ricette “anti-crisi” che si stavano applicando a livello europeo. Il rischio, sostenevano, è che l’intreccio fra le politiche di riduzione della spesa pubblica e di contenimento del costo del lavoro avrebbero potuto creare una situazione in cui vi sarebbe stata una diminuzione di lavoro “produttivo” salariato di contro ad un aumento considerevole di lavoro non pagato di “riproduzione” domestica e sociale. Credo sia superfluo sottolineare che in una siffatta situazione alle donne toccherebbero i secondi , perchè sotto sotto, anche in ambito “ progressista” , siamo rimaste/i alle teorie di Proudhon ( e dei Padri della Chiesa )secondo cui “il luogo della donna è la casa”. Quanto è successo alla Ma-Vib di Inzago, fabbrica metalmeccanica dell’area milanese, ci dice che i timori sono più che fondati. 13 operaie rischiano, infatti, di essere licenziate (alla fine del periodo di cassa integrazione) perché , sostengono le maestranze dell’azienda, lo stipendio che portano a casa è il “secondo” (come il loro sesso verrebbe da dire ) cioè il meno importante e perché, vivaddio, potranno curarsi i loro bambini senza portarli nei (pochi) asili pubblici,notoriamente luoghi di perdizione dell’infanzia! Quando ho letto questa notizia ho subito pensato che i proprietari dell’azienda milanese confermassero superbamente le teorie secondo le quali il genere umano usa solo in pochissima parte il cervello. Poi però continuando a leggere ho scoperto che allo sciopero, indetto opportunamente dalla FIOM di Milano, non hanno partecipato i colleghi maschi. E allora tutto si complica. Non siamo solo in presenza di imprenditori sciocchi e misogini e non si tratta solo di misure discriminatorie fra donne e uomini, c’è di più e cioè il prepotente ritorno nella scena pubblica di una concezione patriarcale secondo la quale il posto delle donne è il focolare domestico. Come non ricordare l’ostilità del genere maschile all’ingresso delle donne nelle fabbriche agli albori del processo di industrializzazione perché le donne “rubavano” il lavoro agli uomini ? E come non risentire i pregiudizi che avvelenarono il nascente movimento operaio che, alla fine del’800, per bocca di alcuni dirigenti sostenne la necessità di togliere le donne dalle fabbriche per” liberarle” e consentire loro di raggiungere la meta essenziale del genere femminile: essere madre di famiglia,rimanere al focolare domestico ed essere interdetta da qualsiasi lavoro salariato? E’ pur vero che il neoliberismo globalizzato negli ultimi trent’anni , attraverso il processo di “femminilizzazione” del lavoro, si è abbondantemente servito di manodopera femminile in modo da generalizzare le modalità di ingresso al lavoro storicamente assegnate alle donne (flessibilità, tempo parziale, salari bassi, precarietà,…). E’ altrettanto vero però che il capitalismo continua a considerare la lavoratrice (o il lavoratore) una variabile dipendente dalla produzione servendosene in modi e in tempi congeniali al profitto. Ora so bene che, in questo caso per fortuna, “una rondine non fa primavera”. Non mi sfugge la complessità dell’attuale situazione economica, sociale e politica che non può essere interpretata in modo univoco o semplificato. Credo però che la motivazione del licenziamento delle 13 lavoratrici di Inzago solleciti tutte le donne consapevoli dei loro diritti ad una forte presa di posizione a loro favore ed ad una vigile attenzione. Nessuna dorma, ragazze!
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