Dopo la giornata dell’8 marzo, festa dall’origine tutt’altro che borghese, come sa chi conosce Clara Eissner Zetkin o ha interesse per la storia dell’Internazionale socialista, più volte associo la parola spettro all’agire collettivo femminista, nella solitudine dei miei pensieri, presa da un’insolita forma di ottimismo.
Spero non risulti irriverente parafrasare l’inizio celeberrimo del Manifesto, mio intento non è proporre un confronto tra femminismo e comunismo, ma piuttosto lanciare degli spunti agevoli allo sviluppo di una riflessione sulle pratiche politiche del femminismo d’oggi.
Priva della pretesa di essere esaustiva o imparziale, farò degli esempi citando gruppi del contesto romano, che conosco bene, con lo scopo di spiegare in che senso è possibile interpretare l’attivismo femminista come uno spettro.
Che differenza c’è tra uno spettro e un fantasma?
Lo spettro vaga e alberga ovunque, mentre il fantasma sta chiuso in uno spazio ristretto, un castello; allo stesso modo la pratica politica femminista attraversa i luoghi più disparati: piazze, sedi di sindacati e partiti, università, associazioni separatiste e miste, centri sociali. Spesso l’azione collettiva delle donne attraversa più luoghi contemporaneamente: basti pensare alla trasversalità del Comitato Se non ora quando che ha organizzato la grande mobilitazione del 13 febbraio 2011, un milione di donne e uomini nelle piazze.
La pratica politica femminista è uno spettro: (1) perché è morta; (2) perché nessuno sa esattamente cosa sia; (3) perché ritorna ed in qualche senso è sempre presente; (4) perché ne viene dichiarata la morte per ammazzarla.
Iniziamo con il primo punto: quante volte parlando tra amiche, con giovani donne che fanno politica di genere, ho sentito dire “Io non sono femminista, no… io sono post femminista!”
Il femminismo storico è concluso, molti dei suoi slogan, delle sue teorie e delle sue prassi appaiono superate nel ventunesimo secolo. Dinnanzi allo sguardo delle giovani femministe, il movimento delle donne degli anni Settanta appare unitario e omogeneo, lontano dalle soggettività politiche attuali, più complesse e frammentate, attraversate dalla precarietà e dalle contraddizioni. Molte di queste ragazze militanti si definiscono post femministe o cyborg femministe. Come il laboratorio politico bolognese delle Sexyshock, che discute di lavoro, comunicazione e della sessualità, che si è dato questo nome perché la società e il precariato impongono alle donne di indossare abiti scomodi, che le fanno sentire poco “sexy” (dalla tuta per fare le pulizie al tailleur per l’ufficio, dalla divisa da donna-soldato al burqa). Come il romano CyberTuba, bazar dei desideri: uno spazio fisico e virtuale dedicato all’immaginario delle donne e alla valorizzazione di un erotismo “liberato”, inteso come esplorazione del sé e piacere profondo di ciò che si è e si fa.
Secondo punto: che cos’è il femminismo? Sono state elaborate critiche feroci all’interno del movimento e della prospettiva teorica del femminismo, tanto che, a partire dagli anni Ottanta, si comincia ad usare una declinazione al plurale del termine: femminismi.
La ragione è che un numero sempre maggiore di donne ritiene che il femminismo assuma la donna bianca, eterosessuale ed occidentale come il referente primario della propria lotta, senza valorizzare la molteplicità delle esperienze femminili. Così la pensano la stragrande maggioranza dei gruppi femministi di nuova generazione, in Italia e nel mondo, come bene emerge negli incontri su “Donne e Mediterraneo, percorsi di dialogo tra femminismi dalle rive opposte del Mediterraneo” organizzati dal Gruppo Donne del centro sociale EX SNIA di Roma. Da questa convinzione deriva il proprio nome una realtà universitaria, della quale fa parte chi scrive, il Laboratorio di studi femministi Sguardi sulle differenze, in cui donne di generazione diversa (docenti, precarie e studentesse) cercano di costruire uno spazio di connessione tra ricerca, formazione universitaria e politica femminista.
Nonostante la pluralità dei punti di vista, la politica delle donne – come un qualsiasi spettro – ritorna ed in qualche senso è sempre presente: terzo punto. L’attivismo femminista ha prodotto, nel corso della storia, notevoli cambiamenti (sociali, politici, culturali), i suoi effetti e conseguenze sono rintracciabili in quasi tutto il globo e, per quanto i diritti conquistati a livello formale siano minacciati e lontani dall’essere materialmente realizzati, l’emancipazione delle donne gode oggi una parziale solidità.
L’azione politica delle donne ritorna, come gli spettri, in alcuni periodi, come forse quello odierno: basti guardare al solo contesto romano e a tutte quelle soggettività singole e collettive che partecipano alle lotte di noinonsiamocomplici – donne che denunciano le violenze perpetrate sulle donne nei Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE) – e che si battono da mesi, sul territorio regionale, contro la proposta di legge Tarzia sui Consultori familiari. Molte di queste forze trovano voce sulle frequenze del Martedì Autogestito da Femministe e Lesbiche su Radio Onda Rossa e sono rappresentate da collettivi femministi e lesbici che si riuniscono in incontri aperti a tutte, in varie zone della capitale: la Meladieva (zona Casilina), le Ribellule (Garbatella), Donnedasud (Pigneto), Infosex (San Lorenzo), le Malefiche (studentesse dell’Università La Sapienza), per citarne solo alcuni. Questi gruppi sono costituiti principalmente da giovani trentenni e ventenni. Destano interesse e curiosità soprattutto le più piccole, quelle nate nella seconda metà degli anni Novanta: per le ragazze cresciute con la tv e la politica berlusconiana sorprende, e non può che essere da stimolo ulteriore, che il femminismo sia una chiave di lettura radicale, con cui interpretare le relazioni, la politica, i fatti di cronoca, l’economia e l’intersezione delle oppressioni (di genere, di classe, di razza).
Ultimo punto, si dichiara la morte della politica delle donne per metterla a morte, non come fa un medico legale, che dichiara la morte ma non la dà, piuttosto come in un esorcismo: si ripete sotto forma di incantesimo che il morto è ben morto. Così si fa anche con gli spettri: si fa finta di constatare la loro morte, là dove l’atto di decesso è invece l’atto linguistico che esprime l’impotente sogno di una messa a tacere, che cerca di rassicurare tutti che quella cosa lì che si vorrebbe morta è effettivamente morta. Più volte questa minaccia è stata respinta dalle femministe: lo testimoniano le storie di due luoghi del femminismo romano tanto importanti quanto tra loro diversi: la Casa internazionale delle donne, a Via della Lungara, e il 22 di Via dei Volsci a San Lorenzo.
La spettralità, il rinvenire ovunque della pratica politica femminista, che investe gli ambiti più disparati dell’attività umana (salute, legge, economia, politica, lavoro, scienza, religione, storia, cinema, letteratura) sembra proprio, a ben vedere, la sua carta vincente.
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