Un discorso troppo minuzioso, ragioneristico nell’elencazione e cauto nelle soluzioni. Obama questa volta non ha avuto né lo slancio emotivo né la visione politica del discorso con cui al Cairo, solo un paio di anni fa, aveva aperto una nuova era nelle relazioni fra Stati Uniti e mondo musulmano.
Barack Obama ha parlato ieri a fine mattina al Dipartimento di Stato, cioè nel sancta sanctorum della politica estera Usa, e accanto a Hillary Clinton, cui ha dedicato ogni possibile complimento – incluso quello errato (e lo hanno subito sgamato i blog) di aver già volato 1 milione di miglia (sono in realtà la metà, e la Rice aveva raggiunto la mitica cifra, resa tale dal George Clooney di «Tra le nuvole», dopo soli 4 anni). Nulla lasciato al caso, dunque, «per fornire una nuova narrativa», come dicono gli analisti americani, a una storia di tensioni fra Usa e Medioriente ormai più lunga di mezzo secolo. Nessun compito avrebbe potuto essere più facile, dopo le rivoluzioni in Egitto, la cacciata di Mubarak, il ritrovato accordo con l’Europa sulla Libia; nulla di più trionfale da annunciare, dopo l’uccisione di Osama, il ritiro dei soldati americani dall’Iraq l’anno scorso, e la promessa di un altro ritiro in Afghanistan.
Abbiamo ascoltato invece un solo acuto, un unico passaggio in puro stile Obama. Onorando il venditore ambulante di 17 anni Mohammed Bouazizi, che bruciandosi vivo per protesta contro le vessazioni della polizia ha acceso la miccia della rivoluzione in Tunisia, il Presidente ha paragonato i moti dei giovani arabi alla rivoluzione americana, e al movimento dei diritti civili: «A volte nel corso della storia le azioni di cittadini comuni avviano grandi cambiamenti perché colgono un desiderio di libertà che negli anni si è accumulato. In America penso ai patrioti di Boston che rifiutarono di pagare le tasse al re, e penso a Rosa Parks che rimase con coraggio al suo posto». Un audacissimo parallelo da proporre alla sua nazione, gli Usa, in cui oggi l’estrema destra ha eletto la rivolta dei patrioti di Boston a simbolo contro Obama, e in cui contro Obama questa stessa destra solleva di continuo lo spettro del razzismo.
Forzatura retorica, dunque, usata dal Presidente per avocare a sé la riscrittura di una nuova piattaforma di politica estera, che passi dalla «sicurezza e stabilità» per sé stessi, all’appoggio a un sistema di valori. «L’equilibrio attuale non è più sostenibile. Società tenute insieme da paura e repressione possono dare l’illusione di stabilità per un periodo, ma alla fine crollano. Noi appoggiamo diritti universali che includono libertà di parola, di riunione, di religione, di eguaglianza per uomini e donne davanti alla legge, e il diritto di scegliere i propri leader – che si sia cittadini di Baghdad o Damasco, di Sanaa o di Teheran».
Il giorno per giorno di quest’appoggio non è però molto chiaro. E infatti, a parte questi passaggi ispirati, il Presidente si è inoltrato con grande cautela, passo per passo, pragmaticamente, in tutti i problemi aperti nella regione. E di ognuno di questi interventi è stata pesata parola per parola, nelle varie capitali mediorientali, dove l’attesa per il discorso ieri era massima. Nulla di nuovo sulla Libia, salvo la rassicurazione che «Gheddafi se ne andrà o sarà deposto». Più vigoroso invece il tanto atteso richiamo alla Siria, in cui Obama adombra un ultimatum, ma senza davvero spingersi a formularlo: «Il presidente Assad ha una scelta: può guidare lui la transizione, o può andarsene». Del resto, le sanzioni appena applicate al governo di Damasco sono un segno di un indurimento di Washington, ma ben al di qua di ogni sfida. Duro avvertimento anche all’«ipocrisia del regime iraniano, che dice di sostenere le rivolte negli altri Paesi e massacra i suoi giovani che protestano». Ma forse la parte più rivelatrice di questa lista è quella che riguarda i Paesi «amici», come definiti nel discorso. E’ lì infatti che covano il disagio e il dilemma sulle cose da fare: su Israele, sull’Arabia Saudita, sul Bahrein e sullo Yemen, tutti alleati a diverso titolo e con diversa grandezza, ma tutti fondamentali per gli Usa. Al presidente yemenita Saleh, Obama ha ripetuto il suo invito (nulla di nuovo, qui) a mantenere la promessa di lasciare il suo posto. Per la prima volta, invece, abbiamo sentito un chiaro messaggio al Bahrein, dove è di stanza la 5ª Flotta americana. Il movimento di piazza nel piccolo Stato è agitato dall’Iran, e il Presidente Usa lo ha ricordato, «ma ugualmente abbiamo insistito privatamente e pubblicamente», ha rivelato, «perché arresti di massa e forza bruta non esprimono rispetto per i diritti umani». E’ il primo cenno esplicito alle brutalità in corso nel Paese. Mai pronunciato invece il nome dell’Arabia Saudita.
Solo in conclusione Obama ha affrontato il tema più dolente, Israele e Palestina. Ha parlato di nuovo di una soluzione che arrivi alla creazione di due Stati, e ha fatto un riferimento al 1967 «come base» dei confini reciproci. Il ripescaggio dell’anno 1967 ha provocato un certo trambusto nella comunità internazionale dal momento che è la data della Guerra dei Sei giorni che portò alla conquista da parte di Israele della maggior parte dei territori poi occupati e di Gerusalemme. Ma l’uso cautelare dell’espressione «sulla base di» tiene il riferimento dentro le possibili revisioni di quei confini in accordi di scambio, come è sempre stato nelle trattative. La realtà di cui Obama ha preso indirettamente atto nel chiedere il rilancio di un’inizitiva di pace è in effetti il fallimento di due anni di tentativi di stabilire un nuovo dialogo. Pochi giorni fa l’inviato Usa George Mitchell (l’uomo che ha costruito il dialogo fra Irlanda e Inghilterra, per capirsi) ha gettato la spugna. E il nuovo accordo tra Fatah e Hamas ha scombussolato gli schemi di lavoro fin qui usati. Il futuro di Israele e Palestina rimane dunque, come sempre, terra incognita.
Giunti alla fine, non si può che prendere atto che nell’elenco fatto i problemi rimangono più numerosi delle soluzioni. Questo è del resto il Medioriente. E nemmeno l’uomo più potente del mondo può illudersi di plasmarlo. In questo senso, forse, la modestia di questo discorso, di cui parlavamo all’inizio, è l’unico possibile, realistico e anche commendevole tono da assumere.
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