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Alle porte di un nuovo ordine mondiale

di Raúl Zibechi
martedì 31 marzo 2020

La pandemia comporta l’approfondirsi della decadenza e della crisi del sistema che, nel breve termine, era cominciata nel 2008, e che invece, nel lungo periodo, si estende a partire dalla rivoluzione mondiale del 1968. Siamo entrati in un periodo di caos del sistema-mondo, la condizione preliminare per la formazione di un nuovo ordine mondiale. In effetti, le principali tendenze in corso (militarizzazione, declino dell’egemonia degli Stati Uniti e ascesa dell’Asia e Pacifico, fine della globalizzazione neoliberista, rafforzamento degli Stati e avanzamento delle ultradestre) sono processi di lungo respiro, che si accelerano in questa congiuntura. Da una prospettiva geopolitica, la Cina ha mostrato la capacità per andare avanti, superare le difficoltà e continuare la sua ascesa come potenza globale che in pochi decenni potrà essere egemone. La coesione della popolazione e un governo efficiente sono due degli aspetti centrali che spiegano in larga parte la resilienza e la resistenza cinese. La dura esperienza vissuta dal suo popolo negli ultimi due secoli (dalle guerre dell’oppio fino all’invasione giapponese) aiutano a spiegare la sua capacità di far fronte alle tragedie. La rivoluzione socialista del 1949, oltre a quella nazionalista del 1911, e il notevole miglioramento nella qualità della vita dell’insieme della popolazione, spiegano la coesione intorno al Partito Comunista e allo Stato, al di là delle opinioni che si possano avere su quelle istituzioni. Al contrario, la divisione interna che vive la popolazione degli Stati Uniti (evidenziata nelle ultime elezioni e nell’epidemia dei farmaci oppioidi che ha diminuito la speranza di vita), si coniuga con un governo erratico, imperiale e machista, di cui diffidano perfino i suoi più vicini alleati. L’Unione Europea sta ancora peggio degli Usa. Dalla crisi del 2008 ha perso la sua bussola strategica, non ha saputo distaccarsi dalla politica di Washington e del Pentagono e ha evitato di prendere decisioni che l’avrebbero perfino favorita, come la conclusione del gasdotto Nord Stream 2, paralizzato per le pressioni di Trump. L’euro non è una moneta affidabile e la mai concretizzata uscita del Regno Unito dal’Unione Europea indica la debolezza delle istituzioni comuni.

La finanziarizzazione dell’economia, dipendente dalle grandi banche corrotte e inefficienti ha trasformato l’eurozona in una “economia a rischio”, priva di una rotta e di un orizzonte di lunga durata. L’impressione è che L’Europa è destinata ad accompagnare il declino degli Stati Uniti, giacché è stata incapace di rompere il cordone ombelicale allacciato dai tempi del Piano Marshall. Tanto gli Stati Uniti quanto l’Unione Europea, come – nemmeno a dirlo – i paesi latinoamericani, soffriranno gli effetti economici della pandemia con molta più intensità di quelli asiatici, i quali hanno mostrato, dal Giappone alla Cina, fino a Singapore e la Corea del Sud, una notevole capacità di superare le avversità. Una recente inchiesta di Foreign Policy tra dodici illustri intellettuali si conclude sostenendo che gli Usa hanno perso la loro capacità di leadership globale e che l’asse del potere mondiale si trasferisce in Asia. La pandemia è la tomba della globalizzazione neoliberista, quella del futuro sarà una globalizzazione più “amichevole”, centrata sulla Cina e i paesi dell’Asia e Pacifico. Nelle principali e decisive tecnologie, la Cina è già in testa. Guida la classifica nella costruzioni di reti 5G, nell’intelligenza artificiale, nel computing quantistico e nei supercomputer. L’economista Oscar Ugarteche, dell’Observatorio Económico de América Latina (Obela), sostiene che “la Cina è la fonte dei cinque rami dell’economia mondiale: la chimica farmaceutica, le automobili, l’aeronautica, l’elettronica e le telecomunicazioni”. Così la chiusura delle fabbriche cinesi può frenare la produzione di questi cinque rami dell’economia nel mondo. La Cina produceva già nel 2017 il 30% dell’energia solare mondiale, più dell’Unione Europea e il doppio degli Stati Uniti. La classifica Top500 dei maggiori supercomputer del mondo rivela che la Cina ne possiede 227 su 500 (il 45%), contro i 118 degli Usa, al minimo storico. Dieci anni fa, nel 2009, la Cina ne aveva 21 contro i 277 dell’allora superpotenza. Il successo cinese nella corsa tecnologica non vuol dire naturalmente che il suo modo di organizzare la società sia desiderabile, dal punto di vista di quelli di noi che desiderano una società postcapitalista, democratica e non patriarcale. Il controllo sociale in Cina è asfissiante: dalle milioni di videocamere che sorvegliano le persone fino al diabolico sistema di “credito sociale” che conferisce o toglie punti a seconda del comportamento corretto o meno dei cittadini, così come per la stigmatizzazione e la discriminazione delle persone LGBTI.

Nel resto del mondo le cose non vanno meglio. Il fatto che le “democrazie” europee abbiano copiato il modello cinese di affrontare l’epidemia del coronavirus è una dimostrazione del fatto che il Dragone è già un punto di riferimento e un esempio per quel che riguarda il controllo sociale della popolazione. “Il mondo ha imparato dal paese asiatico“, sottolinea l’Economist, il settimanale della finanza e degli imprenditori. L’avanzamento dei fascismi in Europa e in America Latina, non solo a livello dei partiti ma di quel fascismo sociale diffuso quanto contundente, focalizzato contro i dissidenti e gli emigranti perché portano alla luce comportamenti differenti e un altro colore della pelle, si accompgna allo svuotamento delle democrazie. Che restano appena come esercizi elettorali ma non garantiscono il minimo cambiamento, né la minima influenza della popolazione nelle politiche statali. L’esperienza di Syriza in Grecia, così come quella del Pt in Brasile, dovrebbe essere motivo di riflessione per le sinistre del mondo sulle difficoltà di spostare l’ago dell’economia e della politica. Anche volendo credere che abbiano provato a portare avanti le loro migliori intenzioni, il bilancio delle loro gestioni non è solo povero ma regressivo negli aspetti macroeconimici e in relazione all’acquisizione di potere da parte delle società.

Per i movimenti il panorama è più complesso, ma non è uniforme. Quelli che hanno fatto delle manifestazioni e di altre azioni pubbliche il loro asse centrale, sono i più colpiti. Quelli di base e territoriali si trovano in una situazione potenzialmente migliore. Ci colpisce e danneggia tutti, tuttavia, la militarizzazione. I popoli originari e neri dell’America Latina, con in primo piano gli zapatisti, i nasa-misak della Colombia e i Mapuche, sono quelli che si trovano nelle migliori condizioni. Qualcosa di simile può accadere con i progetti di autogestione, gli orti e gli spazi collettivi che hanno la possibilità di produrre alimenti. In ogni caso, il militarismo, il fascismo e le tecnologie di controllo della popolazione, sono nemici potenti che, riuniti, possono produrci un danno immenso, fino al punto di rovesciare gli sviluppi che i movimenti hanno tessuto dalla crisi precedente.

Traduzione per Comune-info: marco calabria Questo articolo uscirà in spagnolo anche su El Salto



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