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Balibar, le condizioni della politica

di Marco Assennato
sabato 14 marzo 2020

Interrogare, da un angolo filosofico, la congiuntura politica contemporanea è pressoché impossibile senza confrontarsi con il pensiero di Étienne Balibar. Ciò dipende certo dal lavoro che egli ha condotto su alcuni classici, Spinoza e Marx in particolare; e dallo scavo di alcuni dei temi fondamentali come le frontiere, la cittadinanza, lo spazio politico europeo, la violenza, la globalizzazione e così via seguitando. Ma, più profondamente, il nostro debito verso Balibar dipende dalla straordinaria generosità di un filosofo che non ha mai smesso di fare i conti – direttamente – con l’attualità: che non ha esitato, in altri termini, a prendere la parola in pubblico, accostando di lato i grandi cicli di lotte degli ultimi tre decenni, come una coscienza inquieta e curiosa, desiderosa di discutere ed apprendere, insegnando.

Da questo punto di vista è assai preziosa l’iniziativa della casa editrice La Découverte, che ha deciso di raccogliere in volume, sotto il titolo Histoire interminable. D’un siècle à l’autre. Écrits I, i «testi d’intervento storico-politico», prodotti tra il 1995 e il 2019, sistemati dall’autore in tre sezioni (Tracce, Frontiere, Congetture), inquadrate da due grandi saggi inediti a guisa di introduzione e di conclusione provvisoria (un secondo volume di scritti, intitolato Passion du concept. Épistémologie, théologie et politique è previsto per fine marzo). Si tratta di un invito a pensare il passaggio d’epoca: piantare lo sguardo in avanti e attraversare le macerie del mondo dominato dal «capitalismo assoluto». Esercizio non banale perché Balibar lo circoscrive tra un presupposto: «la storia non è finita», perché essa è «interminabile»; e un dubbio metodico: «che il chiasma tra struttura sociale e azione politica» si sia definitivamente spezzato. Insomma che «il passaggio da un secolo all’altro coincida con la mutazione brutale del senso stesso delle categorie di cui ci serviamo per pensare il tempo, il conflitto e l’azione».

LA PRIMA SEZIONE ragiona sugli «effetti obiettivi di disseminazione della memoria» legati a tre Tracce fondamentali del XX secolo: la Grande Guerra, la Rivoluzione d’Ottobre e il 1968 (cui andrebbe aggiunto il passaggio compreso tra la caduta del muro di Berlino e gli attentati dell’11 settembre 2001, un interregno nel quale, secondo Balibar, si svela il «vero carattere del XXI secolo»). La Grande Guerra imperialista diventa dunque il punto di partenza di quello straordinario processo di «europeizzazione del mondo» che si è oggi definitivamente compiuto nella «provincializzazione d’Europa». Ma è altresì una occasione per interrogare criticamente gli odierni «nazionalismi senza impero», la cui xenofobia strutturale emerge come risposta patologica dall’oggettivo indebolimento dei poteri reali degli Stati-Nazione. «Potremmo definirla – scrive Balibar – una sindrome di impotenza dell’onnipotente». Contro il nazionalismo imperialista vive invece la traccia dell’Ottobre: rivoluzione capovolta nel suo contrario, quando ha perso, nella statalizzazione del suo movimento, l’orizzonte leninista di uno «Stato-non Stato». E tuttavia rivoluzione che continua a produrre effetti dacché, secondo Balibar, sua conseguenza paradossale è stata la spinta verso un nuovo modo di organizzazione del capitalismo: quella Grande Trasformazione, descritta da Polany, contro la quale si è organizzata la reazione neoliberale. Possiamo dire perciò che «il capitalismo globalizzato odierno è un capitalismo postsocialista». Infine il 1968, data simbolo che contiene in germe una diversa prospettiva rispetto alla «crisi dello Stato Nazionale-Sociale». Attivato da un «nuovo regime di discorso e di parola nello spazio pubblico» il ’68 esprime «l’esatta antitesi dell’assorbimento nei consumi di massa e nella distrazione commerciale»: la sperimentazione di un «momento democratico extra-legale» che rivendica «il diritto ad avere diritti».

LA SECONDA SEZIONE del volume ragiona su alcune linee di faglia: Francia-Algeria, Palestina e, più in generale, il Mediterraneo, «punto di incontro e di conflitti permanenti tra storie e culture», ma anche «orizzonte di un progetto di civilizzazione a venire». È nota la pervicacia con la quale, da decenni, Balibar ci invita a considerare il tema della frontiera come metodo (in diverse occasioni egli fa riferimento al fondamentale lavoro svolto in tal senso da Sandro Mezzadra e Brett Neilson): «al posto di una concezione poliziesca della frontiera, urge una pratica politica della frontiera; farne una questione politica della quale si possano negoziare i modi d’uso e di trasformazione». Ma ragionare sulla frontiera, in politica, significa ragionare sulla cittadinanza e quindi sulle forme istituzionali che consentono di assicurarne la cogenza. Perciò individuare delle forme istituzionali sovranazionali «che non siano più lo strumento delle superpotenze militari e finanziarie» è di «bruciante attualità». Si squaderna qui il tema dell’Europa: ridotta oggi a una cinghia di trasmissione delle politiche neoliberali all’interno delle nazioni che la compongono, e a base di retroguardia per le «politiche neocoloniali» di Usa e Cina. La sua afasia politica dipende dall’incapacità di immaginarsi come spazio democratico. Ma domani il vecchio continente può diventare il centro di nuove forme di cooperazione tra nord e sud del mondo.

LA TERZA E ULTIMA SEZIONE contiene un doppio confronto con Immanuel Wallerstein e Mario Tronti, due pensatori della crisi del rapporto tra storia e politica. Pur riconoscendo l’importanza di queste due traiettorie intellettuali, tuttavia, l’escatologia negativa non basta a Balibar. Hic Rodus, Hic salta, la domanda da porsi è tutta rivolta al futuro: «quali ipotesi possiamo fare su una politica anticapitalista nell’epoca del capitalismo assoluto (qui il confronto è piuttosto con Toni Negri)?». Bisogna innanzitutto comprendere che il capitalismo assoluto «non è uno stato stazionario», ma «un regime straordinariamente instabile, fragile e quindi aggressivo». Una «politica della politica» è possibile dunque ragionando sulla «convergenza di un programma di trasformazione del lavoro e della produzione, di un sistema aperto di regolamentazioni cosmopolitiche, di una molteplicità di insurrezioni democratiche e dello sviluppo di utopie concrete che tentano nuovi modi di vita e comunicazione». Programma, regolamentazioni, insurrezioni, utopie sono momenti sincronici da attraversare per riaprire la partita della storia (e il suo nesso con la politica). Balibar ne incarna la possibilità evocando le «nuove soggettività transfrontaliere (di razza, genere, culture)», che si battono per nuovi diritti (alla cittadinanza, al reddito universale e slegato dal lavoro, per l’ambiente) e istituiscono «contro-poteri». La storia non è finita, aveva detto all’inizio. E qui il cerchio si riapre: il mondo è attraversato da insurrezioni. Una delle differenze fondamentali tra la situazione attuale e il novecento politico sta nell’irreversibilità della crisi ecologica e climatica. Senza nulla cedere a posture neo-romantiche di «re-incantamento del mondo», Balibar propone di ripartire dalla domanda di André Gorz: come si inserisce il lavoro socializzato nello scambio con la Natura? Perché è questa la sfida. Resistere «all’ideologia apocalittica del collasso inevitabile» del pianeta «rivoluzionando il concetto stesso di progresso tecnologico». Immaginare un programma socialista, individuare delle regolazioni transnazionali che frenino gli effetti nefasti del ciclo neoliberale, serve a Balibar per visualizzare uno spazio per costruire assemblaggi, a partire da una diagnosi condivisa della congiuntura.

C’È UN’ALTERNANZA costante di realismo ed utopia in queste pagine: tipica di chi non rinuncia ad aprire orizzonti di senso ma si pone al contempo il problema delle condizioni concrete della politica. Si potrebbe dire che siamo di fronte a un revisionismo capovolto. E su un capovolgimento si tiene tutto il ragionamento di questi scritti, almeno laddove Balibar ci invita a ripensare «il dilemma classico delle politiche socialiste ma invertendone lo schema»: la rivoluzione è ormai presupposto necessario per le riforme. Senza rivoluzione, oggi, nessuna riforma sarà possibile. In fondo «l’obiettivo finale non è nulla, il movimento è tutto».



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