Siamo preoccupate e arrabbiate, dopo la lettura del documento In radice: 8 marzo per l’inviolabilità del corpo femminile, firmato e diffuso da Arcilesbica, insieme ad altre associazioni e singole femministe italiane.
Innanzitutto, il tono perentorio, aggressivo, che procede per affermazioni definitorie e per decreti d’esclusione, è una pratica che rifiutiamo e che, come femministe, non ci appartiene. Il femminismo è, per noi, relazione e pratica di riconoscimento dell’altra. E non possiamo accettare una visione che identifichi come suo primo compito quello di tracciare confini, per decidere chi sta dentro e chi sta fuori. Soprattutto, quando questa sorveglianza dei confini serve a escludere non soggetti dominanti, come nella pratica storica del separatismo, ma minoranze gravemente discriminate ed esposte a violenze, sia in famiglia che nella società.
Le donne trans sono nostre sorelle e compagne di battaglie. Davvero qualcuna può ergersi a giudice e decidere chi è degna e chi ha requisiti per appartenere al femminismo? Come ha scritto Lea Melandri commentando la vicenda, “considerare donne come titolari di diritti solo chi nasce con una vagina, cioè sulla base del dato biologico e non sul vissuto e la storia che ha interessato quel corpo, vuol dire ricalcare il determinismo biologico su cui è nata la rappresentazione maschile del mondo: un patriarcato sessista e razzista.”
Ci chiediamo se sia lo spirito del tempo a portare persino una parte del femminismo a questa deriva escludente e a questa smania definitoria, che attraverso la negazione dell’altra pretende di rivendicare una presunta integrità e purezza identitaria.
Se di corpo vogliamo parlare – e noi ne vogliamo parlare – non è per farne di nuovo una “essenza immutabile”, doloroso e miope paradosso in cui questo manifesto sull’inviolabilità mostra di cadere. Tantomeno crediamo che il corpo sia una zavorra di cui liberarsi, rincorrendo un universalismo neutro che rischia anch’esso di farci fare un passo indietro. Per noi è necessario tenere insieme l’esperienza del corpo e la possibilità di significarlo liberamente: un conto è la coscienza del limite, un altro è tornare al corpo come destino. Di quale “inviolabilità”, dunque, stiamo parlando? Di quella che abbiamo rivendicato come autodeterminazione, e che implica che il corpo delle donne non è a disposizione di altri soggetti all’infuori e al di sopra della sua volontà? Oppure anche qui l’inviolabilità serve a recuperare quella visione bio-determinista che ci blocca in una presunta “natura” fissa e immodificabile?
La battaglia da fare non è quella per la difesa di una identità femminile e femminista in opposizione a quella delle donne transessuali. Non è escludendo e ponendo divieti che il femminismo si mostrerà all’altezza delle sfide di questo tempo. Il confronto alto di cui abbiamo tutte bisogno non può prescindere dal dialogo, dall’ascolto, dal dibattito – anche acceso – tra tutte le soggettività che lo attraversano.
E se il titolo di questo manifesto, come ci sembra, intende evocare una delle più grandi opere della filosofia del Novecento, quella di Simone Weil, ci sentiamo allora di rispondere con le sue stesse parole: “Lei non m’interessa. Un essere umano non può rivolgere queste parole a un altro essere umano senza commettere crudeltà e ferire la giustizia” (La persona e il sacro).
E tale per noi è questo manifesto: crudele e ingiusto.
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