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"Conflitto femminista"

di Nicoletta Pirotta
sabato 23 marzo 2019

“Conflitto femminista” - Nicoletta Pirotta (IFE- Italia)

Il quadro generale

L’avanzata di populismo di cui si sta discutendo in questo opportuno convegno, ha trovato un fertile terreno di coltura anche nei differenti fondamentalismi che si sono riaffacciati in questi anni feroci di neoliberismo globalizzato e di politiche “austere”.

Anni nei quali molti milioni di persone non hanno più diritti o li perdono, la precarizzazione del lavoro e della vita rende difficile, quando non impossibile, il poter sperimentare l’efficacia di divenire “classe” e di conseguenza si sono rafforzate le gerarchie che esistono nel corpo sociale. Viviamo oggi in una società asimmetrica, violenta ed ingiusta che acuisce la relazione di potere tra uomini e donne fossilizzata nelle strutture patriarcali, la miseria delle persone immigrate e la ricattabilità di minoranze oppresse.

Una “povertà”, intesa in senso lato, fluida e disorganizzata che cercando spiegazioni facilmente le trova nei pregiudizi popolari, nell’ efficace logica del capro espiatorio o del soggetto da tenere sotto controllo ( la donna ancella, il nero delinquente, l’ebreo malvagio,...) Dentro a tutto ciò la sinistra del Novecento si è decomposta lasciando spazio a forze politiche conservatrici interessate al consenso delle gerarchie clericali ed a un’estrema destra razzista , sessista ed omofoba capace però di costruire egemonia.

Da qui il riaffacciarsi di fondamentalismi. Uso appositamente il plurale, come abbiamo sottolineato nel partecipato convegno internazionale femminista dell’ottobre 2017 a Roma sulla libertà delle donne nel XXI secolo (organizzato in partnership con Transform!Europe e la Casa Internazionale delle Donne, per mettere in luce l’esistenza di fondamentalismi che hanno origini diverse ma una caratteristica comune e ciò quella di essere “totalizzanti” ed “escludenti”. (Si veda http://libertadonne21sec.altervista.org/).

Alcuni di questi fondamentalismi si esprimono attraverso modalità classiche, quali razzismo ed omofobia, e si alimentano di riferimenti religiosi utilizzando la grande capacità di persuasione e suggestione che le religioni possiedono. Altri, diversi ma altrettanto insidiosi, hanno a che vedere sia con l’ideologia del “libero mercato” il cui fine è trasformare in merce, e quindi in profitto, tutto l’umano ed il vivente, sia, lungi però da qualsiasi tentazione oscurantista, con l’approccio fideistico al mito del progresso “ tecnologico scientifico” che non consente di riflettere sulla natura e sulla funzione della scienza dentro un sistema mercificato. I fondamentalismi hanno in comune un aspetto: la loro missione resta quella di controllare e governare ritmi biologici e relazioni sociali, cioè la vita di ciascuna e ciascuno di noi.

Esistono però anticorpi che offrono qualche ancora di salvezza. Mi riferisco alle tante esperienze e pratiche di solidarietà, prime forme sociali di resistenza di base, che si creano nell’organizzazione comune sui bisogni comuni e nella partecipazioni in luoghi un cui si danno alla realtà altre didascalie e si ascoltano altri racconti, Esperienze e pratiche che sarebbe auspicabile sapessero confluire per provare ad aprire il necessario conflitto. La poderosa manifestazione di sabato 2 marzo a Milano “People, Persone” contro il razzismo dice che lo spazio per provare a costruire una narrazione differente e quindi un sano conflitto ancora c’è.

Conflitto

Intendo per conflitto la pratica capace di produrre una rottura con i fondamenti abituali del vivere comune, di mettere in discussione le modalità del nostro essere e del nostro agire dentro un orizzonte di senso che preveda il superamento dei sistemi di potere che condizionano l’esistenza di ciascuna e ciascuno.

Il conflitto per dare il meglio di sè ha bisogno di pensiero e di lotta. Come ben descritto da Cinzia Arruzza e Lidia Cirillo nel libro “Storia delle storie del femminismo” , ogni lotta che vince consente di ampliare l’orizzonte umano ma contemporaneamente produce fenomeni di adattamento e di perdita della radicalitá. “Questo non può significare che sia meglio restare al margine o che sia auspicabile perdere. Significa invece, proprio a partire dall’esperienza dei conflitti agiti, comprenderne due aspetti fondamentali. Il primo è che l’ingresso in un sistema di valori, di principi e di pratiche da chi ne era precedente escluso non lascia quel sistema uguale a sè stesso. Il secondo è che, pur se il conflitto non può darsi senza la forza materiale di un soggetto, non esistono soggetti permanenti in ragione non solo dell’inclusione nei rapporti di potere, in modo particolare di quelli capitalisti, ma perchè tali rapporti di potere periodicamente si riorganizzano disperdendo vecchie soggettività e costituendo le premesse sociali di nuove”.

Da questo punto di vista il movimento femminista, ed in esso i differenti femminismi che lo hanno animato, é paradigmatico. Esso infatti, perseguendo l’obiettivo di rendere migliore e più libera la vita delle donne, é stato il frutto di dinamiche che si sono realizzate più volte nel tempo e quasi in ogni parte del mondo. Potremmo dire che la storia del movimento femminista é una storia che, con linguaggi e pratiche diverse e mettendo in discussione lo stesso rapporto di potere non è mai stata ferma ma è andata costantemente avanti con un movimento a spirale. Dalle richieste di eguaglianza durante la Rivoluzione francese al movimento delle suffragiste per il diritto di voto, dalla rivendicazione della “ differenza” agli studi sull’identità di genere, dalle conquiste degli anni ‘70 fino alle attuali ricerche sull’intersezionalitá delle differenti oppressioni ( genere, classe, origine).

Questa capacità continua di riorganizzarsi ha consentito al movimento femminista, quando ha saputo esprimere il meglio di sè, di ottenere importanti risultati. Ne cito due, uno sul piano legislativo ed uno sul piano della coscienza di sé. Sul piano legislativo mi riferisco alle importanti conquiste che sono state ottenute, in Italia in materia di famiglia, aborto, servizi. Conquiste capaci di modificare nel profondo la cultura e le relazioni sociali. Sul piano della coscienza di sé penso al profondo cambiamento della percezione che le giovani donne ma devo dire anche i giovani uomini hanno di sè stesse. Due esempi concreti:

A) durante un incontro di formazione sulla condizione della donna con due classi quinte di scuole superiori ( un liceo ed un istituto professionale) abbiamo posto alle e ai ragazzi il seguente quesito:
- se una donna resta incinta e non vuole o non puó tenersi il bambino a chi spetta la decisione e l’ultima parola? Tutte e tutti gli studenti risposero che la prima e l’ultima parola spetti alla donna a dimostrazione di quanto sia profondo questo convincimento. Per dirla tutta, abbiamo posto anche una seconda domanda e cioè se una lavoratrice incinta potesse essere licenziata qualora il datore di lavoro consideri la sua condizione un impedimento alla produttività aziendale. Ebbene in questo caso praticamente tutte e tutti risposero che il licenziamento poteva starci perché la produttività aziendale va tutelata in modo assoluto (sic!)

B) Come dicono bene Arruzza e Cirillo, nel testo sopra citato, ggi le donne oggi sono contemporaneamente più forti e sotto attacco, più libere ed in maggiore difficoltà senza che fra i due aspetti vi sia contraddizione.

Seppure la femminilizzazione del lavoro - fenomeno complesso che pure ha determinato anche positive ricadute sul piano dell’emancipazione - ha creato, per le ragioni e per il modo in cui essa si é affermata, condizioni di incertezza, carenza di diritti, tassi di sfruttamento a volte insopportabili; seppure la violenza fisica aumenti esponenzialmente come testimoniano sia il numero dei femminicidi commessi da maschi in ambito famigliare o di coppia (in Italia uno ogni due giorni) sia alcune sentenze di assoluzione di maschi violenti con motivazioni a dir poco insopportabili (l’essere in preda ad una “tempesta emotiva” per dirne una); seppure forze politiche conservatrici e reazionarie, oggi purtroppo egemoni, provino a rimettere in discussione diritti sociali ed individuali, le donne stanno dimostrando di essere forti e consapevoli di sè e dei propri diritti tanto da aprire conflitto e contrastare alcuni di questi attacchi, talvolta in modo vincente . Penso in particolare alle grandi mobilitazioni in Spagna ed in Polonia e, su un piano differente, negli Stati Uniti al movimento #meToo.

Non è un caso, dunque,che pur in un contesto difficile ed avaro di protagonismo sociale, assistiamo alla feconda insorgenza di un movimento femminista nuovo, giovane, di classe , antirazzista e capace di aprire conflitto.

Il Femminismo dell’oggi

Il movimento femminista che oggi riempie strade e piazze in moltissime parti del mondo, per la prima volta nella storia, non nasce all’interno di un movimento di trasformazione generale ( come invece era stato nel passato) ma per “motu proprio”, a partire da sé.

E’ un movimento femminista nato in Argentina dalla coalizione “Ni Una Menos” che il 2 ottobre del 2016 lanciò uno sciopero femminista per denunciare lo stupro e l’omicidio di una giovane sedicenne, Lucia Perez. E’ interessante sottolineare che, per la prima volta nella storia recente, lo sciopero non venne lanciato contro la disparità salariale o contro le discriminazioni sul lavoro ma per denunciare la violenza sessista, a cui si aggiunse subito dopo la richiesta di legalizzazione dell’aborto. In questo accostamento inedito sta l’originalità di quello sciopero, che aprì una prospettiva “rivoluzionaria”.

Non a caso il movimento femminista di “Non Una Di Meno” vede il protagonismo di una nuova generazione di donne, le quali, pur se in una condizione lavorativa, sociale ed individuale di precarietà, si riconoscono una coscienza critica (che forse proviene dall’onda lunga del femminismo degli anni ’70 ed alla diffusione dei studi di genere) in grado rimettere di nuovo tutto in discussione.

Il manifesto che lo tematizza (“Oltre il “farsi avanti”: per un femminismo del 99%”, scritto nel 2017 negli Stati Uniti da Linda Martín Alcoff, Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya, Angela Davis, Nancy Fraser, Keeanga-Yamahtta Taylor, Rasmea Yousef Odeh) annuncia un nuovo movimento femminista internazionale con un’agenda inclusiva rivolta a tutte le donne del mondo e capace di riconoscere tutte le forme di oppressione e dominio.

Quello che mi preme mettere in luce è il contenuto a mio avviso più interessante del femminismo di Non Una Di Meno e cioè il concetto di intersezionalità. Un concetto che potrebbe risultare utile non solo al femminismo, se solo si volesse riconoscere che,come auspica Lea Melandri nel suo articolo del 9 marzo su “Il Manifesto”, “il femminismo oggi rappresenta il principale riferimento per un processo di liberazione comune a molteplici soggetti”.

Lo strumento analitico dell’intersezionalità consente di comprendere meglio come siano molteplici le strutture di potere e di oppressione che incidono sull’individualità. Il concetto di intersezionalità, nasce nel 1989 grazie a Kimberlè Crenshaw (si veda il numero 2/19 della rivista “Jacobin”), per dimostrare che il genere e l’origine non sono categorie separate e reciprocamente esclusive, serve oggi per confermare che sul genere, sulla classe, sull’origine sono stati costruiti sistemi di potere interconnessi fra loro che hanno prodotto e producono discriminazione e vulnerabilità. Considerare, invece, le discriminazioni di classe, di genere o di origine come categorie non intrecciate fra loro non consente di cogliere appieno la complessità del reale perché separa l’analisi della realtà da quella delle soggettività concrete. “Il razzismo non colpisce necessariamente tutte le persone della stessa razza, così come la misoginia non colpisce tutte le persone dello stesso genere” scrive Kimberlè Crenshaw.

Avendo discusso di ciò lo scorso anno nel seminario del decennale della mia associazione,IFE Italia, mi permetto di riportare alcune riflessioni. I soggetti all’interno di un sistema si collocano all’incrocio di più connotazioni (genere, classe, origine) e questo intreccio ne determina la posizione sociale. Dimenticarsi del soggetto non permette di riconoscere l’importanza del lavoro domestico e casalingo (il cibo cotto, gli abiti puliti, l’accudimento di bambini ed anziani….) e tutta una massa di lavoro nascosto che consente di vivere e di riprodurre la “forza lavoro”. Non tenere conto degli intrecci fra lavoro produttivo e lavoro di riproduzione sociale significa non comprendere fino in fondo la natura e la funzione dei rapporti di sfruttamento e di dominio.

L’analisi sistemica, dunque, non è sufficiente a comprendere la realtà se contemporaneamente non si analizza come avvengono i processi di soggettivizzazione. Nel secolo scorso le forze materiali del capitalismo, configgendo in questo caso con quelle del patriarcato, hanno avuto la necessità di indurre una grande massa di donne ad allontanarsi dalle case e dai lavori domestici e di cura per essere inserite nel mondo del lavoro salariato. Ai giorni nostri, dentro la crisi del sistema capitalista finanziarizzato, si assiste al contrario ad una “rinnovata alleanza fra capitalismo e patriarcato”, come ben ha descritto Tania Toffanin (si veda per es.- http://libertadonne21sec.altervista... ) in diversi suoi interventi,l’ultimo dei quali a Bruxelles in occasione di un incontro femminista internazionale organizzato da Eleonora Forenza per il GUE. Una rinnovata alleanza, sempre fondata su precise forze materiali, che agiscono in base alla logica del profitto, dello sfruttamento e del dominio orientata a riportare le donne nell’ambito domestico smontando e svuotando lo Stato sociale attraverso la privatizzazione dei servizi o l’utilizzo di nuove figure come la badante, ruolo spesso ricoperto da donne immigrate. E’ quello che qualcuno chiama ciclo della riproduzione e dello sfruttamento globale.

Ed ancora. Se si utilizza la chiave di lettura dell’intersezionalità, e se quindi si esce dall’astrazione, si possono vedere differenze di non poco conto fra donne e fra femminismi, a seconda della classe di appartenza o delle proprie origini. Le donne del ceto medio e della piccola borghesia intellettualizzata rivendicavano il diritto all’istruzione, alla cultura e al voto; le femministe proletarie lottavano per il diritto alla salute e per i diritti del lavoro. Se le donne afro-americane si battevano per il diritto alla famiglia (essendo da schiave allontanate da compagni, figli, parenti) le femministe bianche ne criticavano fortemente la natura e la funzione.

Fare del concetto di intersezionalità il proprio strumento analitico consente dunque al movimento femminista di “Non Una Di Meno” di unire la lotta contro la violenza a quella contro la precarizzazione del lavoro e della vita ed insieme contrastare l’omofobia, il razzismo e la xenofobia, l’attacco ai diritti civili ed alla democrazia.

Il “Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere” di NUDM Italia descrive in modo esemplare il carattere sistemico ed intersezionale della violenza e spiega come le sue forme di espressione siano molteplici e trasversali perché toccano tutti gli ambiti delle nostre vite intrecciandosi continuamente tra di loro.

Forte di queste consapevolezze il movimento ha saputo dotarsi di uno strumento “antico”,per rianimarlo e risignificarlo. Mi riferisco alla pratica dello sciopero globale delle donne come manifestazione di lotta generale contro l’oppressione sessista in tutti gli ambiti della vita, per un’ astensione dai ruoli e dalle attività produttive e di cura e come atto di denuncia radicale dei sistemi globali di sfruttamento e di oppressione che governano le nostre vite. Uno sciopero che, come scrivono Marie Moise e Sara Farris sul numero 2/19 della rivista “Jacobin”,è una pratica collettiva di interruzione della privatizzazione/femminilizzazione/razzializzazione del lavoro”. E’ confortante che i più importanti sindacati spagnoli abbiamo saputo cogliere il carattere “rivoluzionario” di un tale sciopero e se ne siano fatti promotori. Al contrario in Italia solo il sindacalismo di base pare essersene accorto mentre CGIL-CISL-UIL non solo continuano a snobbarlo ma sembra proprio che lo osteggino visto che quest’anno le tre confederazioni hanno organizzato per l’8 marzo, mentre in numerosissime città italiane migliaia di donne “scioperavano”, l’assemblea nazionale delle delegate e delle funzionarie…

Con “Non Una Di Meno” torna in scena dunque un conflitto femminista capace di raccogliere la sfida dell’oggi per collegarsi con l’attivismo antirazzista, ambientalista, per i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori. E di farlo in una prospettiva intersezionalista che consenta alle differenti contraddizioni ed ai differenti conflitti non semplicemente di unirsi ma di articolare una visione della realtà che aiuti ad immaginare un destino comune e quindi attraverso la pratica dello sciopero globale a darsi struttura ed organizzazione..

Generalizzare una tale prospettiva ed una tale pratica potrebbe costituire una buona risposta all’avanzata di fondamentalismi e populismi.



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