"… in me sta la ribellione, sulla mia carne…" (Gloria Anzaldúa )
“Per questa Chicana la guerra d’indipendenza è una costante”, afferma Gloria Anzaldúa in uno dei capitoli più noti della sua grande opera Borderlands/La frontera. Pubblicato nel 1987, il testo di Anzaldúa ha segnato un evento nel mondo della letteratura così come nel femminismo e nel cosiddetto pensiero post-coloniale. È forse una delle prime opere che riflette sulle relazioni tra genere, corpo, razza (1) e l’interrelazione con le aree geografiche di confine. Il titolo stesso ci fornisce la chiave per l’utilizzo del concetto di frontiera come categoria politica. L’opera attraversa non solo frontiere geografiche, ma anche linguistiche (dal momento che la stessa lingua si fa ibrida e meticcia), passa attraverso vari generi letterari e accademici, mette in discussione le identità sessuali e le identità nazionali, analizza la complessità dei soggetti di frontiera, senza idealizzare la sua condizione liminale e assumendo la sua precarietà costituente. La frontiera è dunque un’allegoria della mancanza di identità e di luogo, così come la constatazione di una situazione socio-storica reale di emarginazione e oppressione. Nel testo, tuttavia, la questione di frontiera muta e si rielabora, fino a diventare uno strumento politico per la trasformazione sociale.
Nata nel sud del Texas, nel seno di un’umile famiglia di agricoltori, la vita della scrittrice chicana è stata segnata dalla malattia, dalla povertà e dall’immigrazione. Nei suoi scritti, per la maggior parte autobiografici, il dolore e la miseria si fanno carne, si materializzano nelle operazioni e nei trattamenti medici che lasciano segni laceranti sul suo debole e vulnerabile corpo. Troppo scura e india, tanto fragile quanto maschia e poco femminile. Gloria, la prieta [scura e dura, ndt], attribuiva la sua fragile salute alle fumigazioni che aveva sofferto da bambina, quando gli aerei delle multinazionali yankees lanciavano veleno su braccianti a giornata messicani che lavoravano nei campi. Non è un caso che la precarietà del suo essere si plasmi in una scrittura fatta carne, in una corpo-politica emerso dalle viscere, da quel corpo ferito e lacero della donna del terzo mondo. Scrittura-organica, chiama Anzaldúa il testo vivo, le parole di un mostro che diventano le sue uniche armi per la sopravvivenza.
Una delle caratteristiche principali del suo pensiero è il suo essere ibrido, il meticciato. La stessa Anzaldúa si definisce per il suo status di straniera situata tra culture che non la riconoscono come uguale. Chicana, lesbica, meticcia: la condizione di diversa e intrusa che abita gli interstizi segna ciascuna delle sue metafore. Metà-metà: “l’unione degli opposti in uno stesso essere”. In questo modo si descrive questo scenario liminale, questo non-luogo della donna di origine immigrante, povera e al di fuori dei canoni della femminilità. Geograficamente, Anzaldúa si situa nella frontiera, quella che separa il Messico dagli Stati Uniti, ma assume anche altre frontiere più profonde, come quelle identitarie, linguistiche, epistemologiche e sessuali. È una delle altre, sempre de-localizzata, sempre fuori luogo. Non del tutto messicana, ma nemmeno statunitense in quanto tale; attraversata dalle due lingue del colonizzatore: lo spagnolo e l’inglese. Per questa chicana, il cui corpo conserva la memoria di secoli di sfruttamento, barbarie, omofobia e razzismo, la guerra di indipendenza è una costante, la lotta politica per l’emancipazione non si ferma, la voce della Bestia non tace nei suoi testi.
La decolonizzazione del femminismo
Anzaldúa appartiene a quella generazione di autrici chicane che si sono fatte conoscere nella famosa raccolta di testi intitolata Esta puente mi espalda. Voces tercermundistas en los Estados Unidos [This Bridge Called My Back: Writings by Radical Women of Color] (1981). Le voci raccolte in questo volume segnalano, fondamentalmente, uno spostamento teorico-politico di diverse tradizioni femministe. Dislocamento che ha prodotto una critica radicale al femminismo egemonico, bianco, eterosessuale, e di classe medio-alta, da parte di quelle autrici che si erano sentite rifiutate o semplicemente non riconosciute nei loro discorsi di emancipazione. In questo modo, le coordinate della “razza” e della classe sociale si fanno presenti in tutti questi scritti e cominciano a rivendicarsi come categorie politiche fondamentali per la lotta femminista. Da questa critica nasce l’idea di una comunità femminista eterogenea, non centrata esclusivamente sul genere e sulle differenze sessuali. Si parla, ad esempio, di “geometrie della differenza e della contraddizione”, dal momento che si deve assumere l’impossibilità di un posizionamento sicuro e omogeneo da cui rivendicare una lotta comune. La trasformazione del femminismo esige l’assunzione della contraddizione, dell’alterità e della differenza come condizione di possibilità della prassi politica.
In tutti questi testi troviamo una spaccatura profonda con un certo femminismo, la messa in discussione del profondo eurocentrismo di molti dei suoi argomenti; anche con l’etnocentrismo e il classismo di alcuni discorsi emancipatori, persino nel seno della sinistra; anche con lo stesso soggetto donna e con omofobia implicita nell’ideologia della femminilità, perché molte di queste autrici sono lesbiche. In questa scia, Anzaldúa inizia il suo percorso rinunciando a qualsiasi luogo sicuro di enunciazione. Si colloca nella differenza, nella diaspora, persino nel tradimento come strumento critico: né fedele alla sua razza, alla sua cultura, traditrice del suo genere femminile, usurpatrice della lingua. Cosa sono? Si chiede continuamente Anzaldúa: “Una lesbica femminista del terzo mondo incline al marxismo e al misticismo. Mi frammenteranno e ad ogni pezzo daranno un’etichetta”.
Abitare la frontiera: ripoliticizzando le ferite
Affermare senza aggiungere altro che il femminismo proposto da Anzaldúa è un femminismo di frontiera sarebbe una semplificazione di una categoria complessa nel suo lavoro. Come ogni spazio liminale, la questione di frontiera apparirà come un luogo di violenza ed emarginazione, ma allo stesso tempo, come possibilità di una proposta politica. Se le zone di frontiera funzionano come collocazioni gerarchiche e violente, sarà necessario risignificarle e trasformarle in modi diversi di esistenza.
Anzaldúa ridefinisce la frontiera di 3140 km. che separa gli Stati Uniti dal Messico come una “ferita aperta”, una ferita che attraverserà il corpo della donna del Terzo Mondo, localizzata e situata in quello spazio di colonizzazione e violenza. Walter Mignolo concettualizza questa ferita e la definisce come la cosiddetta “differenza coloniale”, come il marchio, lo stigma che porta l’altro, il colonizzato. La differenza coloniale riorganizza le categorie a partire dall’idea di esteriorità: l’esterno, i margini, il confine, la periferia, è il luogo del barbaro, del colonizzato, dell’incivile, dell’indio, mentre al centro troviamo la retorica del dentro, spazio della civilizzazione e del progresso. La frontiera si presenta come un non-luogo, uno spazio intermedio, incrocio tra culture, zona di contaminazione, nonché di segregazione e morte. Non è solo una posizione geografica che identifica, individua e situa; è anche una figura politica di demarcazione linguistica, identitaria e ontologica: dalla frontiera si definisce la barbarie, ciò che rimane fuori dai nostri limiti, i margini della civilizzazione. La frontiera delimita, divide, separa, avverte dei pericoli dell’ibridazione con l’altro. Ridefinisce chi siamo noi e chi sono gli altri, quelli che sono sempre percepiti come una minaccia.
Il pensiero frontaliero di Anzaldúa appare come una strategia decoloniale che, da una proposta femminista, fa appello a strategie differenti, a riconfigurazioni identitarie distinte. Queste “altre”, sfollate e de-territorializzate, inappropriate perfino per i discorsi femministi egemoni, appartenenti a questi “gruppi rari”, si ergono dalla ribellione interrogando quei dispositivi di produzione dell’alterità e della differenza. Le identità di frontiera proposte da Anzaldúa (le cosiddette border identities), ci descrivono una nuova realtà più complessa ed eterogenea che è necessario assumere, al di là di qualsiasi essenzialismo. La soggettività meticcia ri-politicizza questa idea di meticciato e rimarca l’impossibilità della purezza culturale (il mito dell’omogeneità culturale e del soggetto unitario è invalidato). Perché abitare la frontiera, dice Anzaldúa, comporta vivir sin fronteras. Implica l’assumere che siamo sempre un vero incrocio di percorsi.
La Bestia dell’ombra: la minaccia meticcia
Le allegorie di un’alterità animalizzata e inquietante vengono risignificate da Anzaldúa in un dislocamento va oltre il valorizzare l’identità femminile. La donna del Tercer Mundo, l’india, la deviante, è sempre stata umiliata, maltrattata e tradita, persino dalla sua stessa cultura. Fottuta e dimenticata, brutalizzata, “messa a tacere, derisa, ingabbiata, legata alla servitù con il matrimonio, picchiata da 300 anni, sterilizzata e castrata nel XX secolo”, ci dice Anzaldúa. La coscienza meticcia ha a monte la genealogia del pensiero coloniale attraverso una nuova categoria politica (non semplicemente culturale) attraversata dalle coordinate di genere, etnicità e classe sociale: è la prieta, la new meticcia, quell’altra subalterna (di cui non ci si può appropriare) che reclama la sua legittimità dal silenzio e dall’emarginazione. Testimoniare quel silenzio, politicizzare quella zona di indifferenza, rendere abitabile l’inabitabile, cioè gli spazi intermedi e periferici, è già il sintomo di una prassi politica diversa.
Non è un caso che Anzaldúa si auto-definisca la bestia o il mostro la cui ribellione scuote le fondamenta di un immaginario coloniale popolato di metafore tratte dalla zoologia per giustificare le violenze più infami. Troviamo in Anzaldúa una riappropriazione politica di queste bestie, di quegli “insetti o aliens“, come lei definisce quei soggetti espropriati della propria soggettività, marcati dal colore della pelle, dal proprio desiderio sessuale e dai loro stili di vita. Gloria, la ciarlatana e spudorata; il turbine e il ponte, quella che trasforma i suoi lividi in armi per la resistenza.
Questa nuova bestia, ribelle e inarrestabile, abita il “mundo zurdo” [il mondo sbagliato, alla lettera il mondo mancino, ndt], un’altra categoria fondamentale di Anzaldúa: davanti al mondo retto, bianco, eterosessuale, il mondo zurdo è abitato da tutti gli emarginati del mondo white-right: i gruppi rari, quelli che non appartengono a nessun luogo, le illegali, i wetback [messicani illegali negli Stati Uniti, ndt], i gay e le queer, i lavoratori itineranti, tutti coloro che sfidano l’ordine stabilito e costituiscono una minaccia per quell’ordine. Dal mondo zurdo, ci dice Anzaldúa, possiamo proporre diversi modi di abitare, di convivere. Perché soltanto da questo mondo distorto si possono pensare e riconfigurare altri mondi possibili, in cui costruire, con il nostro legno, la malta e i mattoni femministi, universi differenti, comunità, relazioni e affetti diversi. Se nei nostri attuali etno-paesaggi neoliberisti, gli sfollamenti forzati, la moltiplicazione delle frontiere simboliche-materiali e la vulnerabilità della vita sembrano essere diventati la norma, ritornare ad Anzaldúa è un compito più che urgente.
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