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La scarsa percezione dell’emergenza, ovvero i rischi che corrono le istituzioni democratiche

di Anna Picciolini
mercoledì 6 aprile 2011

Qualche volta, parlando con persone di cui non ho avuto prima motivi per mettere in discussione la coscienza democratica, mi stupisco di quella che a me pare una scarsa percezione, da parte loro, dello stato di emergenza in cui versano le istituzioni democratiche in Italia. Perché persone intelligenti e consapevoli non condividono la convinzione che questa non è una crisi come tante altre, ma un passaggio in cui è alto il rischio di implosione di una democrazia ancora relativamente giovane? Infatti sono 150 gli anni passati dalla proclamazione del regno d’Italia, ma la democrazia repubblicana ne ha meno della metà, essendo nata con il referendum istituzionale a metà del 1946 o, meglio ancora, con l’entrata in vigore della carta costituzionale all’inizio del 1948. Se la monarchia costituzionale (che sarebbe arduo definire democrazia) “sopportò” il regime fascista senza bisogno di modificare lo statuto albertino, la repubblica parlamentare sta “sopportando” da 15-20 anni un processo politico culturale che ne ha frenato lo sviluppo democratico e bloccato i processi di partecipazione, con una “torsione” della costituzione formale, quella scritta, verso una costituzione materiale, contrassegnata da un populismo autoritario, alimentato dal dominio sui media da parte di una sola persona. Perché l’estrema gravità della situazione non è percepita con più nettezza da più persone? Credo che una spiegazione parziale possa essere la seguente: la crisi della democrazia e delle istituzioni che la rendono possibile è come schiacciata fra due altre crisi, percepite da molte persone come più gravi. Sono due crisi di livello diverso, l’una delle quali non esclude l’altra e che, insieme, si intrecciano con quella di cui stiamo parlando. Una è di livello macro, è la crisi del neocapitalismo globalizzato, il “finanzcapitalismo” di cui ci parla l’ultimo libro di Luciano Gallino. È la crisi dei mercati e del credito, che, calata nella materialità del vivere quotidiano, si trasforma in perdita del potere d’acquisto dei salari, ma di cui riusciamo comunque a cogliere anche la complessità, l’incapacità di dare risposta a bisogni che non siano quelli del capitalismo stesso, che esige sviluppo illimitato senza curarsi di ciò che viene distrutto/sacrificato da questo sviluppo, persone, risorse, relazioni, prospettive. L’altra è una crisi di livello micro, riguarda singole persone, è la precarizzazione della vita, causata dalla precarizzazione dei rapporti di lavoro e dagli effetti della crisi globale, uno dei quali, ma non l’unico, è la contrazione dei posti di lavoro. Anche questa crisi incide su relazioni e prospettive, sul presente e sul futuro, e tocca le persone più da vicino. In questo quadro la crisi della democrazia italiana, una sorta di livello “meso”, risulta di più difficile comprensione, anche se i nessi con le altre due (la crisi globale e la vita precarizzata) dovrebbero essere evidenti. Un Paese dove si possa esercitare una effettiva sovranità popolare “nei limiti stabiliti dalla costituzione”, in cui chi “rappresenta” questa sovranità, sia pure senza vincolo di mandato, si ponga nell’ottica di una politica (e di un’economia) che sappiano rispondere ai bisogni e ai desideri delle persone, saprebbe affrontare meglio la crisi globale e saprebbe darsi gli strumenti perché le modifiche nel mondo del lavoro non vadano tutte e solo a danno di chi lavora. Una volta, nei tanto vituperati partiti della sinistra, da quelli storici e istituzionali a quelli più contingenti e movimentisti, usavano relazioni con un “indice” standard: la descrizione della “fase” cioè della situazione internazionale, nazionale, locale; per ognuno dei livelli si esaminavano gli aspetti socioeconomici e quelli politici in senso stretto, e su questo si delineavano i “compiti” del partito/movimento. Nessun rimpianto per quel tempo, vengo da quel percorso di donne che ha imposto un rovesciamento della logica, affermando l’esigenza di “partire da sé”. Ma, appunto, “partire”, capire e definire la situazione in cui ci si trova, “posizionarsi” nel mondo, nel tempo e nello spazio, con le coordinate necessarie, per modificare quel mondo. Ridefinire bisogni e desideri in relazione alle risorse, disegnare prospettive, spostare equilibri per realizzarne di nuovi, più avanzati, perché più inclusivi, più in grado di dare risposte positive a desideri e bisogni. Per questo cogliere la complessità della crisi va di pari passo con la comprensione di tutti i suoi livelli. Certamente si possono e si devono, insieme, definire le priorità: ma credo che oggi l’attacco alla tenuta delle istituzioni democratiche sia di una gravità tale che sarebbe follia sottovalutare.


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La scarsa percezione dell’emergenza, ovvero i rischi che corrono le istituzioni democratiche

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