Nel magma sempre più confuso, in cui vanno a confluire criminalità, disagio sociale, insicurezza, i “soggetti minacciosi” si moltiplicano e, nel medesimo tempo, subiscono una, sia pure meno evidente, riduzione a un unico, omogeneo tratto distintivo: sono, di volta in volta, gli scippatori, le prostitute, i lavavetri, i parcheggiatori abusivi, i mendicanti, i terroristi nascosti nelle moschee, le donne col burqa, gli zingari; ma sono anche le molte facce di quella umanità inferiore, non propriamente umana, che si ripresenta in ogni epoca e in ogni società come un residuo da tenere a bada o da eliminare.
Oggi, “vite di scarto” sono quelle del povero, del vagabondo, del migrante visto come miserabile e spesso come delinquente, una presenza “selvaggia” che semina paura, fastidio, odio, per le strade della “civile” Europa. In questa schiera di indesiderati, da cui molti vorrebbero vedere ripulite le nostre città, entrano di tanto in tanto gli stupratori, soprattutto se stranieri. Benché le cronache dimostrino quotidianamente che stupri e omicidi di donne avvengono per la maggior parte dei casi in famiglia, che il ‘perturbante’ emerge imprevisto dalla “normalità”, che con la stessa mano si può accarezzare e uccidere, la violenza che un sesso fa all’altro stenta ancora a essere nominata come tale: la forma più manifesta e più orribile di un potere ‘sovrano’ che l’uomo si è arrogato sulla donna e che tuttora vive, incorporato nelle istituzioni, nelle abitudini, nelle convinzioni filosofiche e morali della “civiltà”. È bastato il caso Hina, poco più di dieci anni fa, per dare alla violenza patriarcale il volto di una comunità, di una religione, per farne un tassello dello “scontro tra Occidente e Islam”.
Negli scritti dei bambini, che compaiono nel libro di Paola Tabet La pelle giusta (Einaudi 1997), la commistione di sessismo e razzismo non compare, ma forse, se al posto del tema “Se i tuoi genitori fossero neri” si fosse chiesto di dire cosa intendono per maschio e femmina, oppure cosa pensano di eventuali genitori gay e lesbiche, avremmo avuto non meno ragioni di stupirci, ridere o rabbrividire. “La vita dei negri è bruttissima perché già a vederli sono poveri. I negri nascono in Sud America, Iraq, Maroche, Albania. I negri a scuola non li accettano e li buttano via e io non vorrei stare fuori da scuola. I negri nascono di tre razze: di pelle nera, gialla e bianca”. “Se i miei genitori fossero negri sarebbero vestiti con degli stracci e ciabatte da arabo. Abiterebbero in jugoslavia. Mangerebbero sempre riso e farina”. “Se fossi nero: ruberei, farei tutto con malvagità. Andrei per la strada a vendere cose. Abiterei in luoghi sporchi”. “Se i miei genitori fossero neri, gli darei una bella ‘scartazzata’, così sarebbero bianche e puliti come la lana di una pecora bianca appena lavata con il sapone”.
Oggi la violenza che ha a che fare col rapporto tra i sessi, benché esca sempre più spesso dalle case, dal privato, dall’ambiguo legame con l’amore, continua a subire forme diverse di cancellazione: sia che si tenti di darle una maschera “etnica” , sia che la si riduca a patologia individuale, raptus momentaneo. Se c’è una ‘cultura’ che ha fatto del pregiudizio razziale il suo atto fondativo, è proprio quella maschile, col suo carico di ingiustizie e di orrori perpetrati a danno dell’altro sesso e poi via via su altri ‘diversi’. L’incivilimento ha prodotto finora cambiamenti superficiali e passibili di essere contraddetti. Per scuotere un’ideologia che è divenuta ragione di sopravvivenza, garanzia di privilegi, occorre una forza collettiva di donne consapevoli del loro destino, capaci di vedere nel potere – sessuale e procreativo -, che è stato loro attribuito, la ragione prima della loro sottomissione. Se non ci fermiamo alla facile equiparazione tra migrante e stupratore, la rappresentazione, così genuina e ‘politicamente scorretta’ che danno i bambini del razzismo, può aiutarci a portare allo scoperto alcune parentele radicate nel senso comune, che parlano dell’affinità tra vittime del razzismo e vittime del sessismo.
Lasciando stare l’ideologia che interpreta l’inferiorità di un popolo come “effeminatezza”, ci sono altri tratti comuni nel modo con cui si costruisce socialmente, politicamente la “differenza”. È sempre un gruppo dominante, come scrive Paola Tabet, che decide la classificazione e la collocazione sociale di persone e gruppi “secondo una biologia di comando”.
La costruzione del ‘diverso’ è sempre “reificazione di rapporti sociali. Rimossi lo sfruttamento, il dominio, la storia coloniale passata e i rapporti attuali di egemonia economica dell’Occidente, obliterati dunque i rapporti politico-economici che creano la povertà, rimane in piedi solo la povertà stessa, illimitata, inspiegabile”. Ma non si può dire lo stesso per quegli aspetti psicologici, culturali che tuttora vengono attribuiti alle donne, e a cui si continua ad imputare la loro inadeguatezza, estraneità, rispetto alle responsabilità della vita pubblica? Non sono queste “differenze”, naturalizzate, a offrire ragioni sia a chi vorrebbe vedere nel femminile materno i tratti di una superiore umanità – non violenta, generosa di cure e attenzioni all’altro -, sia a chi, come Otto Weininger considerava le donne incapaci di “rapporti vicendevoli”, in quanto prive di quella indipendenza che è solo di chi, come l’uomo, possiede un Io intelligibile?
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