Le donne che hanno visibilità mediatica, come nella trasmissione di Gramellini, dovrebbero usare un pizzico di prudenza quando parlano di argomenti che esulano dalle loro competenze e soprattutto quando viene richiesto il loro parere sulle lotte delle donne e la storia politica, di cui sanno poco o nulla in gran parte per responsabilità di tutto il sistema formativo e informativo e in piccola parte per propria sciatteria.
La prudenza è una virtù antica, femminile per desinenza, un tempo conosciuta dalle donne più che dagli uomini perché usata anche per salvare la vita, propria e altrui. E salvare vite qualche volta non è eroico ma è sempre utile. A cicli torna la critica sul 8 marzo, l’inutilità del femminismo, la fine del movimento delle donne.
Quest’anno, data l’evidente vitalità di ciò che si dava per finito, l’ultimo argomento che resta è la critica della mimosa. Si possono avere opinioni su tutto e sono una fautrice della libertà per ognuna di esprimere le proprie opinioni. Per fare un esempio sono contenta che una donna possa essere ministra della difesa e che la sua parola sia autorevole anche se con l’attuale nostra non sono d’accordo proprio su nulla e la considero un’avversaria politica da sconfiggere.
Sconfiggere la mimosa però mi sembra un’impresa più da miseria che da grandezza femminile.
Considero il mercato una iattura (per dirla in modo rozzo), compreso ovviamente quello delle mimose, ma non dimentico che il fiore fu scelto in Italia da donne che avevano lottato contro il nazifascismo e hanno contribuito a inventare la nostra democrazia.
La mimosa fu l’invenzione di un gesto da donna a donna quando la vita delle donne era oppressa da condizioni materiali spaventose, da responsabilità inenarrabili, da leggi sessiste e misogine in un paese che avevano contribuito a salvare.
Milioni di donne non avevano mai ricevuto un fiore nella loro vita e so che ancora oggi per moltissime, me compresa, è un gesto gradito. Come per tutti i doni dipende da chi arriva e si può sempre rispedire al mittente, uomo o donna che sia, se l’intenzione è ipocrita e il gesto ordinario.
Ricordiamo che negli anni ’50 si poteva finire in carcere per aver distribuito la mimosa: è accaduto nel 1955 a Bologna ad Anna Zucchini e le sue amiche Angela, Sara, Renatina, Franchina che si fecero un mese di carcere, tranne Angela che fu rilasciata perché minorenne. I corpi del reato requisiti dai carabinieri erano un cesto di mimose e un volantino per il diritto al lavoro.
La figlia di Anna, Katia Graziosi, ricorda ancora che suo padre la portò a trovare la mamma in carcere.
La battuta sulla mimosa come foglia di fico sulla cattiva coscienza maschile la facciamo da almeno trent’anni ma chiederne la soppressione in nome della rivoluzione è decisamente curioso. Prima di tutto perché è un’invenzione delle donne e come la giornata del 8 marzo va rivendicata, non censurata. Come finalmente abbiamo fatto quest’anno.
In una società che da sempre mortifica le associazioni politiche delle donne molte si sono autofinanziate e si autofinanziano con la mimosa, prima fra tutte l’UDI (Unione Donne Italiane oggi in Italia), l’associazione delle donne che hanno rilanciato l’8 marzo in Italia dopo la fine della seconda guerra mondiale e hanno “inventato” la mimosa.
Se proprio dobbiamo lottare contro un mercato abbiamo solo l’imbarazzo della scelta, quello delle armi ad esempio? Anche in omaggio alle operaie che l’8 marzo del 1917 a Pietroburgo decisero di scioperare e fermarono il lavoro nelle fabbriche di guerra scendendo in piazza per chiedere pane e pace. Non sapevano che il loro gesto collettivo avrebbe attraversato la storia complessa dei movimenti delle donne da oriente a occidente e sarebbe giunto fino a noi.
Con Rosa Luxemburg abbiamo imparato a volere il pane e le rose perciò direi che oggi possiamo avere le mimose e fare la rivoluzione. Buon 8 marzo a tutte. Rosangela Pesenti
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