Fra tutti i paesi del Nordafrica, la Libia sembra il meno adatto a una rivoluzione di popolo. Anzitutto perché di popolo ce n’è poco. Nemmeno 7 milioni di persone abitano uno spazio vasto quasi sei volte l’Italia: una densità di 4 anime per chilometro quadrato. Le due principali città, la capitale Tripoli e Bengasi, in Cirenaica, sono lontane non solo geograficamente, ma per storia, tradizioni e rapporto con il potere. Fedelissima la prima, refrattaria e spesso ribelle la seconda, che risente dell’influenza della confraternita islamica della Senussia, cui afferiva la monarchia sovvertita il 1. settembre 1969 da Gheddafi. Per i parametri africani, la Libia è poi un paese benestante, grazie alla strategica redistribuzione delle rendite energetiche. Eppure pare legittimo chiedersi se non sarà proprio Gheddafi la prossima vittima dell’onda scaturita dalla Tunisia che è già costata il trono a Ben Ali e a Mubarak.
Le manifestazioni che fino a pochi giorni fa radunavano poche centinaia di attivisti ed erano concentrate a Bengasi, stanno diffondendosi in altri centri della Cirenaica. La città di El Beida, poco a est di Bengasi, sarebbe fuori controllo, come altre località lungo la costa che si affaccia sul Golfo della Sirte. Le informazioni provengono spesso da esponenti della patetica opposizione in esilio, in contatto vero o presunto con i manifestanti locali, e vanno dunque prese con beneficio di inventario. D’altronde, i media libici sono sotto stretta censura. Quanto a Internet e ai suoi derivati, qui non incidono come in Tunisia o in Egitto.
Ma è Gheddafi stesso a prendere sul serio la minaccia. Tanto da sentire la necessità di organizzare manifestazioni a sostegno di se stesso, alla cui testa ha voluto esibirsi. Il colonnello ha mobilitato i poteri informali che lo sostengono. Ha inviato reparti speciali, i cosiddetti battaglioni di sicurezza, a sedare le rivolte di Bengasi ed El Beida. Non pare sia bastato, se è vero che mercenari africani comandati dal figlio minore, Khamis, sono intervenuti in Cirenaica distinguendosi per brutalità che pare siano costate la vita a decine di manifestanti.
L’insurrezione in corso è figlia dell’emulazione. Dopo che le piazze di Tunisi e del Cairo hanno infranto la barriera della paura, i meccanismi di autocensura tendono a saltare in tutta la fascia islamica, segnata dalla prevalenza demografica delle nuove generazioni. Anche se in Libia non si osservano sacche di miseria paragonabili a quelle che affliggono l’Egitto, molti giovani soffrono i morsi della crisi, visto che per almeno il 30% sono disoccupati.
Perché la rivolta abbia successo occorre però radunare tre condizioni. Deve estendersi a Tripoli, cuore politico del paese. Deve scompaginare gli equilibri tribali su cui Gheddafi poggia da quasi 42 anni. E deve coinvolgere almeno parte delle Forze armate, ancora apparentemente compatte attorno al leader, che ha voluto strutturarle lungo linee tribali per meglio controllarle. Altrimenti, l’insurrezione di Bengasi finirà come altre precedenti rivolte: in un bagno di sangue.
Il regime ha già evocato una repressione “violenta e fulminante” contro gli eversori. Ossia contro quella larga parte della Cirenaica che si sente trascurata da Tripoli, non abilitata a godere della bonanza energetica con cui Gheddafi ha cementato negli anni un consenso comunque diffuso. Non solo affidato alla pervasiva intelligence, ma anche a un certo grado di adesione all’ideologia gheddafiana, fondata sul rapporto diretto fra capo e masse. Un capo che non ha fama di corrotto, almeno non quanto Ben Ali e Mubarak. Aspetti talvolta trascurati dagli osservatori occidentali, ipnotizzati dalle trovate funamboliche del leader. C’è molta logica nel buffone Gheddafi. Tanta sapienza politica non gli consente peraltro di gestire in tranquillità l’inevitabile successione, che il colonnello aspirerebbe mantenere all’interno della famiglia – con il figlio “riformista” Seif al-Islam contrastato dal fratello Motasem, legato ai militari.
Il collasso del regime gheddafiano avrebbe per noi importanti riflessi. L’anno scorso la Libia è stato il nostro primo fornitore di petrolio, il quarto di gas. Con tendenza a crescere, anche in omaggio al teorema della diversificazione degli approvvigionamenti energetici – meno Russia e più Africa – che oggi autorizza qualche sorriso. L’intrinsechezza economica non si ferma all’energia. Investitori libici sono attivi in diversi settori strategici della nostra economia. Inoltre, sull’onda delle intese Berlusconi-Gheddafi, l’Italia è impegnata a versare alla Libia 5 miliardi di dollari in 20 anni, formalmente a titolo di risarcimento per gli orrori del nostro colonialismo, di fatto a sostegno delle opere infrastrutturali che impegnano nostre imprese sul suolo libico.
Non ultimo, il rischio di ulteriori migrazioni attraverso il Canale di Sicilia. Dalle conseguenze che è meglio non immaginare, visto lo stato delle strutture che stiamo tardivamente allestendo, l’indifferenza dei partner europei e l’isteria dell’opinione pubblica rispetto a simili “invasioni”. Non stupirebbe, dunque, se alla diffusa simpatia per le rivoluzioni in corso seguisse presto, non solo in Italia, un drastico cambio di umore.
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